di Enrico Molle
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n. 2, pagg. 22-24,
Sono sceso per le scale. L’ascensore era rotto da anni. Dodici piani. Al secondo m’è venuto in mente di bussare alla porta di Flavia. Avevamo avuto una bella storia durata due anni. Sognavamo di vivere insieme e di amarci per tutta la vita. Lei con le sue sculture e io con i miei romanzi. Allora mi chiamava “papà”, era molto affettuosa e mi diceva sempre: «Ho tanto bisogno di te, papà». Ma un giorno se n’era andata in Spagna, poi a New York. Sapeva gestirsi molto bene e si era dimenticata dei nostri sogni.“
E come Flavia, nella vita di Pedro Juan, saranno troppe le persone che se ne andranno; e come quel sogno d’amore, saranno ancora un’infinità quelli che non si realizzeranno o svaniranno senza farci troppo caso.
Il libro da cui è tratto il passo soprariportato è Trilogia sporca dell’Avana dello scrittore cubano Pedro Juan Gutierrez, una raccolta di sessanta racconti divisa in tre sezioni. Si tratta di una delle opere narrative contemporanee più controverse che un lettore possa trovarsi tra le mani, non fosse altro per la schiettezza con cui si affrontano numerosi temi difficili, talvolta oscuri, caratteristici della società e, più precisamente, dell’umanità.
Sullo sfondo della Cuba degli anni Novanta, devastata da una crisi senza precedenti dovuta alla caduta del muro di Berlino e quindi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica che per anni aveva sostenuto l’economia e il commercio di quest’isola dei Caraibi, si intreccia, secondo un confine per niente netto tra finzione e realtà, la storia personale dell’autore, o meglio, del suo alter ego Pedro Juan. Questi, in crisi dopo il suo licenziamento da giornalista e dopo il fallimento matrimoniale, si ritrova solo e destinato alla povertà e alla marginalità. Sin dalle prime pagine si è posti di fronte a un uomo che ha perso quasi tutto, un uomo che ha perso il suo sogno e che prova ad accettarlo, abbandonandosi a molte distrazioni, scrivendo centinaia di pagine, ma senza mai riuscirci.
Pedro Juan ci confessa di aver commesso dei grossi errori e che, per non morire nella sofferenza prolungata, l’unica cosa che può fare è non prendersi sul serio. Ciò permette all’autore-narratore di ampliare la sua prospettiva e di dare una luce diversa alle sue disavventure. Di fatto, in mezzo alla povertà e alla fame, le vicende rocambolesche del protagonista diventano una sorta di gesta eroiche nella grande saga della sopravvivenza. I racconti di leggendarie imprese erotiche, dell’incessante caccia al rum, all’acquavite o a qualche dollaro, dell’esigenza di distaccarsi per pochi istanti dalla miseria, accompagnano il lettore costantemente, catapultandolo in una realtà inimmaginabile, cruda, fatta di carne, di istinti e di eccessi, come era quella della Cuba degli anni Novanta.
Ben presto, questo marasma di impulsi apre uno squarcio che permette riflessioni irrequiete sulla vita e sull’umanità e, in breve tempo, appare chiaro che tutto quello che si legge è la conseguenza di un sogno infranto.
La possibilità di riportare in centinaia di pagine storie al limite del credibile, nelle quali non si riesce a capire dove finisca il racconto biografico e dove inizi una geniale narrazione di avvenimenti assurdi, tuttavia verosimili in quel determinato contesto, nasce dal sogno infranto di Pedro Juan di lasciare Cuba e trasferirsi in un altro posto, perché negli anni del grande esodo in cui molti cubani lasciano il proprio Paese alla volta degli Stati Uniti, lui resta, malgrado tutto, perché non è capace di vivere troppo lontano da lì. Inoltre, la miseria di uno Stato così povero, non è altro che il risultato di un sogno infranto, di un’utopia, quale era il Comunismo Sovietico, che per alcuni anni aveva prosperato prima di crollare, con conseguenze disastrose per i regimi a esso collegati.
Nei vari racconti di questa raccolta, di fatto, uno dei fili conduttori principali è la consapevolezza del protagonista di essersi ormai arenato in uno status di immobilità a cui è giunto per non aver avuto il coraggio di inseguire con maggiore caparbietà i suoi sogni. Ogni qualvolta che Pedro Juan pare vicino a una svolta, possa questa essere la prospettiva di una permanenza all’estero o l’avvio di un business che gli permetta la vendita di polli, rum, o sigari, dinanzi alla prime difficoltà, inevitabili in quel contesto sociale, tutto si blocca, lasciando spazio a un’altra sbornia, a un’altra avventura sessuale, inseguite in definitiva con molta più costanza, forse perché ormai impregnano l’animo del protagonista più di ogni altra cosa.
Il peso di una vita migliore mai realizzatasi, diviene così il fulcro, il cuore portante, il potentissimo carburante che brucia per alimentare le numerosissime peripezie in cui Pedro Juan e la gente dell’Avana si agitano continuamente, in una sorta di Odissea che alla fine porta a raggiungere quello stesso luogo in cui già si vive e il cui viaggio non rappresenta altro che un frenetico avvicendarsi per raggiungere un pizzico di serenità, seppur precaria, in un posto che di per sé è uno dei più belli al mondo. D’altronde, a contrastare la durezza di una vita fatta di stenti e quindi a renderla quasi sopportabile, c’è la bellezza di una splendida isola dei Caraibi, che rende meno amara la miseria e che a lungo andare entra nell’animo e nelle ossa dei suoi abitanti, frenando ogni desiderio di fuga.
Nel libro sono numerosissime le parti in cui l’autore descrive l’Avana, il Malecón (il lungo mare dell’Avana), i suoi tramonti mozzafiato, le brezze marine che spirano dai mari tropicali, gli imponenti edifici ormai in rovina, simbolo di un glorioso passato.
Vivevo nel posto più bello del mondo: un appartamento sul tetto di un vecchio edificio di otto piani del Centro Avana. Al tramonto mi preparavo un bicchiere di rum bello forte, con ghiaccio, e scrivevo qualche poesia cruda (a volte un po’ cruda e un po’ malinconica) che poi lasciavo in giro da qualche parte. Oppure buttavo giù lettere. A quell’ora tutto diventa dorato e io mi guardavo attorno. A nord il Mar dei Caraibi, blu, imprevedibile, come se l’acqua fosse d’oro e cielo. A sud e a est la città vecchia, corrosa dal tempo, dal salnitro, dai venti e dall’incuria. A ovest la città moderna, i grattacieli. Ogni posto con la sua gente, il suo fracasso e la sua musica. […] Tutto ciò mi stimolava a pensare con una certa lucidità. Mi domandavo perché la mia vita fosse così. Cercavo di capirci qualcosa. Mi piace volarmi sopra, osservando Pedro Juan da lontano.“
In questo passo, come in molti altri disseminati nel libro, si capisce chiaramente come l’ambiente influisca prepotentemente sulla vita del protagonista e su quella di molti altri personaggi, facendoli vivere sospesi tra bellezza e miseria, in un contesto surreale e avulso dal resto del mondo. Inoltre viene spesso sottolineato come un posto da sogno vada a contrastare con una vita da sogno e come spesso le due cose non possano convivere, poiché sovente il Sud del mondo è caratterizzato da paesaggi mozzafiato affiancati tuttavia da una condizione di povertà e difficoltà sociale.
In quest’opera l’autore, Pedro Juan Gutierrez, raccontando la vita all’Avana, ha fatto da portavoce d’eccellenza di una realtà difficile, quella cubana di fine secolo, riportando vicende personali e non, ma intrecciandole in un gioco attento e astuto, in modo da confondere il lettore e non lasciargli intendere quali siano i confini della sua narrativa. L’opera appare a tratti evanescente, sfuggente, poiché numerosi spezzoni di vita vengono mescolati all’asprezza e alla durezza della miseria, e ancora, all’erotismo estremo che rasenta la pornografia, e persino alla poesia e alla filosofia più pura, rendendo i racconti di Trilogia sporca dell’Avana simili a dei sogni, intesi in questo caso come il fenomeno psichico legato al sonno, dal momento che si rivelano pieni di assurdità e sono presentati come un susseguirsi di eventi sconnessi e ai limiti del credibile. L’autore ha voluto testimoniare la storia di una Nazione in crisi, attraverso un’idea di racconto che a tratti sembra un miraggio.
Tuttavia è importante non commettere l’errore comune di proiettare la figura del narratore necessariamente su quella dello scrittore, in quanto proprio la natura ibrida di quest’opera non consente di capire chi dei due stia parlando, considerato il passaggio del testimone continuo tra l’uno e l’altro.
Ovviamente quella del “sogno infranto” è solo una delle numerose chiavi di lettura di questa complessa opera narrativa e sarebbe riduttivo ricondurla esclusivamente a questa linea interpretativa, ma di sicuro si tratta di una tematica largamente presente, seppur celata dietro lunghe riflessioni esistenziali che il narratore stesso non prende troppo sul serio, restando incastrato in una realtà stagnante e ripetendo ciclicamente le stesse azioni.
Tra i sogni e le speranze di Trilogia sporca dell’Avana, si intreccia ancora un desiderio, in questo caso, personale. Confesso infatti che mentre leggevo quest’opera avevo un sogno, ovvero non finire mai il libro, poiché non riuscivo minimamente a immaginare come potesse non esserci un altro racconto, un’altra storia rocambolesca in bilico tra il reale e l’assurdo, un altro amore per Pedro Juan. Allora ho ideato un escamotage, un piccolo trucco per rendere reale il mio sogno, e ho deciso di lasciare un ultimo capitolo da leggere, un ultimo racconto che, a oggi, dopo molti anni, ancora non ho letto. Potrebbe sembrare un sacrilegio, ma questo mi fa sentire un po’ più in pace con il mondo: sapere che c’è ancora una storia di Pedro Juan da scoprire, mi fa sentire meglio. Un giorno, quando un altro sogno si realizzerà e, quindi, si libererà un posto tra i sogni incompiuti, potrò finalmente leggere quell’ultimo racconto e abbracciare serenamente il vuoto che ti coglie inevitabilmente, quando si chiude una storia d’amore, come lo è la lettura di un libro.
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