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Nicolò Errico
I dati del rapporto nascite/morti della Corea del Sud nel 2020 hanno sorpreso molti. Di contro a 307.764 decessi, le nascite sono state solo 275.800, il 10% in meno rispetto all’anno prima. Il governo è corso ai ripari annunciando una serie di sussidi e di misure di welfare volte a invertire il trend. Sempre nel 2020 l’ISTAT ha annunciato che la natalità in Italia non avrebbe coperto l’altissimo numero di decessi (il più alto dal 1944). Nove mesi dopo il primo lockdown, le nascite erano calate del 21,6% rispetto al 2019, segnando il numero più basso di nuovi nati – circa 408 mila unità – nella storia italiana dalla fondazione nel 1861. In Inghilterra i dati dell’estate 2019 hanno spinto le autorità a parlare di “population crisis”. In Russia, il declino della natalità sembra inarrestabile. Il governo centrale – certamente non noto per la sua trasparenza – ha persino dichiarato pubblicamente che alcuni governatori stavano volontariamente falsificando i dati così da presentare un numero maggiore di neonati rispetto alla realtà. Il tutto per non perdere le sovvenzioni dello Stato.
Secondo il rapporto del “The Lancet” intitolato Fertility, mortality, migration, and population scenarios for 195 countries and territories from 2017 to 2100: a forecasting analysis for the Global Burden of Disease Study, pubblicato il 14 luglio 2020, il tasso di fertilità – cioè il numero medio di figli per donna – sta diminuendo a livello globale. Fa notare inoltre che quando il tasso scende sotto circa il 2.1 non c’è sostituzione dei deceduti, e la popolazione inizia a ridursi.
“Nel 1950, le donne avevano una media di 4,7 bambini nell’arco della loro vita”, scrive James Gallagher, corrispondente per salute e scienza della BBC, “I ricercatori dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington mostrano che il tasso globale di fertilità si è dimezzato, da circa la metà fino a 2.4 nel 2017 – e il loro studio, pubblicato nel “The Lancet”, prevede che scenderà sotto il 1,7 entro il 2100.”
Non tutti gli stati però condividono lo stesso trend. Ad esempio, lo studio prevede che l’Africa possa raggiungere 3 miliardi di abitanti, trainata dall’impressionante crescita della popolazione in Nigeria. Gli Stati Uniti dovrebbero non solo rimanere stabili come popolazione ma anche tornare ad essere la prima economia al mondo entro la fine del secolo. Il Regno Unito dovrebbe raggiungere un picco di 75 milioni nel 2063 per scendere a 71 milioni nel 2100. È interessante notare come non siano necessariamente i paesi con PIL pro-capite alti a vivere una diminuzione di natalità, ma anche paesi meno ricchi come Cipro o Russia.
La popolazione del Giappone dovrebbe raggiungere i 53 milioni di abitanti entro il 2100, contro i 126 milioni attuali. Per lo stesso periodo, l’Italia dovrebbe contare 28 milioni di abitanti di contro alle 61 milioni unità attuali. Italia e Giappone sarebbero dunque i due paesi che, tra tutti quelli che stanno sperimentando la diminuzione del tasso di natalità, dovrebbero avere una popolazione dimezzata entro la fine del XXI secolo. Inaspettatamente, Cina ed India non dovrebbero essere da meno. In particolare, la Cina dovrebbe passare da 1.4 miliardi a 732 milioni di abitanti nel 2100.
Sebbene i più scettici possano non credere alle proiezioni statistiche per il futuro, il trend negativo è confermato dai fatti, e rappresenta una sfida politica di importanza vitale. Se uno Stato ha uno scarso numero di nascite ed una buona qualità della vita, che assicura benessere e longevità, permettendo così ai cittadini di raggiungere età avanzate, il peso delle pensioni e del sistema di welfare a sostegno degli anziani viene necessariamente scaricato su un numero sempre minore di contribuenti.
L’aspettativa di vita è fortunatamente molto alta sia in Giappone che in Italia.
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel maggio 2016, l’Italia è al settimo posto al mondo tra gli stati membri, con 82,6 anni di aspettativa di vita totale. Il Giappone invece è al primo posto, con 83,7 anni. Questo vuol dire che mentre la popolazione diventa sempre più anziana – e vive nell’età pensionabile per un lungo tempo – sempre meno giovani potranno sostenerli economicamente. Ed è proprio questo il motivo per cui è difficile gioire degli eventuali benefici ecologici di una diminuzione della popolazione mondiale: stati e società rischiano il collasso e la violenza senza un sostenibile rapporto tra nascite e decessi, giovani ed anziani. Ovviamente rischiano altrettanto se non troveranno un rapporto armonioso anche con l’ecosistema.
Osservare il Giappone può dare un’immagine sia del problema delle nascite che della creatività politica che servirà per risolverlo nell’immediato futuro.
Nel 2019, le nascite in Giappone sono state le più basse in centoventi anni di rilevazioni – 864.000 -, confermando una parabola in rapida discesa, peggiorata dalla pandemia globale. Uno scarso numero di matrimoni (in discesa dagli anni ’70, a parte una breve risalita negli anni ’90) e la scelta di sposarsi in età più avanzate – nel 2019 per gli uomini l’età del primo matrimonio è stato in media 31,2 anni e quella delle donne 29,6 – sono fattori determinanti. Il futuro incerto, minacciato dagli effetti socio-economici del Covid-19, compromette ulteriormente il benessere dei giovani, e li trattiene dal riprodursi.
Come tutte le economie del mondo, quella giapponese non è stata risparmiata dalla recessione e da un’impennata del debito pubblico, che ora tocca il 238.7% sul PIL – l’Italia invece ha un debito del 154.7%. Bisogna far notare tuttavia che il Giappone è stato sempre in grado di sostenere il gigantesco debito virtuosamente, mentre l’economia è stata molto più resiliente di altre, tanto che dovrebbe riprendersi dallo shock della pandemia entro il 2021.
Nonostante il benessere economico, l’ansia e la depressione hanno sempre avuto larga diffusione in Giappone. Nel 2020 più che mai. Il Giappone è l’unico paese del G-7 dove il suicidio è la prima causa di morte tra le persone di età compresa tra i 15 ed i 39 anni, con più di 20.000 decessi l’anno, mentre la Corea del Sud mantiene la prima posizione. Durante l’Ottobre 2020, complici anche le restrizioni contro il Covid-19, i suicidi hanno toccato la cifra record di 2.153, con un aumento del 83% di vittime di sesso femminile. L’emergenza, tuttora in corso, ha spinto il governo giapponese ad istituire un ufficio per la solitudine e l’isolamento lo scorso febbraio. Al vertice ci sarà Tetsushi Sakamoto, già assegnato alla lotta contro la bassa natalità.
Questi dati suggeriscono che altri fattori, non solo economici, ma anche culturali e sociali, esercitano una fortissima pressione – talvolta letale – sui giovani giapponesi, incidendo sulla fertilità.
Il crollo delle nascite rappresenta una delle sfide maggiori per i governi del Giappone, come quello di Shinzo Abe (2012-2020), che si era posto come obiettivo l’aumento del tasso di fertilità a 1,8 entro il 2025. La realtà però ha frustrato le ambizioni dell’amministrazione: nel 2020 il tasso di fertilità è rimasto in linea con quello del 2019 a 1,369 nascite per donna. Una diminuzione del 0,07% rispetto al 2018. Nonostante il recente cambio di governo – a metà settembre 2020 Abe è stato sostituito da Yoshihide Suga -, la crescita delle nascite è rimasta una priorità. Il governo centrale infatti ha deciso di utilizzare 2 miliardi di yen (circa 16 milioni di euro) per sostenere gli sforzi delle amministrazioni locali nella lotta al declino demografico. I fondi dovrebbero premiare la sperimentazione di mezzi innovativi, come l’applicazione dell’intelligenza artificiale per combinare coppie con alta probabilità di successo. Tuttavia, il problema non può essere affrontato attraverso banali soluzioni di ‘appuntamenti combinati’. Quello di cui il Giappone ha bisogno è una seria ristrutturazione del sistema del welfare, che favorisca donne, bambini e giovani attraverso servizi e taglio dei costi per i cittadini. Ma resterebbe comunque uno scoglio, cioè la società giapponese stessa. La cultura totalizzante del lavoro, gli orari massacranti, il sessismo istituzionalizzato, la frustrazione dei giovani, la sofferenza delle donne sono fattori che non possono essere sottostimati nella lotta per l’aumento delle nascite. Inoltre, fino a poco tempo fa, il Giappone non era considerato un paese favorevole all’immigrazione, un palliativo per il deficit demografico.
Ma su questo bisogna ricredersi.
Nell’Aprile 2019, il governo giapponese di centrodestra ha avviato l’implementazione di una storica riforma dell’immigrazione, attraverso un’estensione dei programmi di visto. La decisione permette a circa 345.000 nuovi lavoratori di migrare in Giappone entro il 2024. Lavoratori non specializzati possono risiedere per cinque anni nel paese, mentre quelli specializzati possono risiedere permanentemente insieme alle famiglie. Dal 2013, l’amministrazione giapponese ha volutamente aumentato il numero di lavoratori stranieri nel territorio attraverso programmi di formazione che hanno attratto centinaia di migliaia di migranti temporanei. Nel 2017 invece, il Giappone ha ulteriormente facilitato l’ingresso di forza lavoro specializzata dall’estero attraverso la velocizzazione della burocrazia necessaria. Nonostante queste poderose iniziative, la popolazione non ha manifestato contro l’apertura all’immigrazione né la politica si è polarizzata come in Occidente sulla questione migratoria.
La crisi delle nascite è uno dei fenomeni contemporanei più interessanti attualmente in corso. Quando la politica tenta di occuparsi di demografia, deve necessariamente affrontare temi scottanti come l’immigrazione, la cultura – tra paura di ‘sostituzioni’ e bisogno di integrazione -, il welfare ed altri. Più in generale, cercare di controllare i trend demografici con la politica significa porsi la domanda del ‘modello di Paese’ che si desidera raggiungere. E come si può facilmente immaginare, la questione, anziché unire i cittadini, li divide e talvolta polarizza violentemente la società. Nonostante i rischi rappresentati da qualsiasi soluzione, i paesi che stanno soffrendo di trend negativi di nascite dovranno presto adottare politiche di portata generazionale per assicurare la stabilità dello stato e la pace sociale. L’esempio del Giappone potrebbe rappresentare una svolta verso un rapporto più armonioso con l’immigrazione, governata ed utilizzata per garantire la tenuta del welfare. Ma è difficile che l’ingresso di lavoratori stranieri da solo possa sopperire agli effetti di una cultura della realizzazione personale opprimente che carica i giovani di pericolose ansie da prestazione e dai connotati sessisti.
Insomma, per invertire rotta e ritrovare l’equilibrio demografico serve il coraggio di trasformare le società profondamente in modelli più inclusivi, dinamici e non opprimenti, ma soprattutto ci vuole l’onestà di ammettere che il problema è qui ed è in corso ora, e richiede dagli Stati sforzi mai tentati prima che tengano conto anche delle necessità e dei limiti dell’ecosistema globale.