Lo scenario Oltre il confine

Il dovere di indignarsi

Susan Seddon Boulet, La donna leone

di Mara Torricelli

…ma figlia figlia
non voglio che tu sia felice
ma sempre “contro”
finché ti lasciano la voce…

Roberto Vecchioni, da Elisir, 1976

Sono le 20:30 e teniamo la tivù accesa di sottofondo. Scorrono immagini di guerra, Afghanistan, Bosnia, Siria. Si vedono bombe che scoppiano e polvere. I filmati di guerra si muovono sempre in ambienti grigi, fumosi, polverosi. Ma se spostiamo lo sguardo siamo in casa nostra, in una cucina ben illuminata, e il nostro fumo è il vapore attraente della pasta appena scodellata. Certo, ce la siamo meritata: il lavoro, la giornata dura. Cambiamo canale. Ma di là, c’è la pubblicità. Allora si fa zapping indietro. Cronaca italiana: delle ragazze violentate alla fine di una festa. Va già bene se non si dice “Ma certo, anche loro…vestirsi così!”. E poi la cena continua.
Respingiamo quel colpo assonnato allo stomaco che è frutto della lotta, fra la coscienza e l’istinto di sopravvivenza.
Cerchiamo un canale più tranquillo, magari un documentario sugli animali rari nell’Amazzonia.
Poi la cena finisce.
Nel dopocena, fra le ragnatele del nulla offerto dalla tivù di stato, è più difficile intrappolare i pensieri (a meno di non essere i fortunati annullati dal colpo-di-sonno immediato). Andiamo indietro nel tempo senza volerlo, come un vagone-merci con il fermo spezzato, scivoliamo su queste rotaie, e cominciamo a pensare…

Perché tutto sembra scorrere su di noi, e scivolare senza lasciare traccia? Perché non ci indigniamo più di niente? Siamo forse caduti nella palude dell’Indifferenza come Bastian, ne La storia infinita? Il Nulla ci ha vinto? [1]

Una scena del film La storia infinita dove Atreyu cerca di salvare il suo cavallo, caduto nelle paludi dell’indifferenza

Nel mondo antico, che sempre deve esserci maestro, indignarsi era un dovere. In uno stato come quello ateniese, con leggi riconosciute da tutti e una stessa etica, in una polis in cui il valore preminente è la centralizzazione dell’ethos da tutti rispettato e riconosciuto, è nato il bisogno di “indignarsi”. Qualunque cosa andasse contro l’isonomia e la libertà, faceva indignare.

Indignare…La parola italiana [2] deriva dal latino IN-DIGNATIO, dove il prefisso negante IN e il sostantivo dignitas, indicano quello che fa un uomo probo e meritevole di lode [3]. In-dignarsi, dunque, vuol dire andare contro a chi fa il contrario della dignitas. Nel contesto storico della polis, con leggi unitarie, da tutti riconosciute, in una città dove è nata la “democrazia” [4] nel vero senso della parola, indignarsi era un dovere; era una denuncia a ciò che era pericoloso per lo Stato: comportamenti errati, vigliaccheria, tradimenti, furti…
La parola in molte occasioni, era un dovere, sinonimo di ira, di biasimo, di forza di scagliarsi contro con coraggio, a viso aperto: nella Roma repubblicana: “…l’oratore nel parlare potrà «arrivare ad adirarsi» (indignatio) o «assalirà violentemente l’avversario» (obiurgatio) [5]. Un significativo esempio è l’incipit della 1 Catilinaria. 

Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catilina, 1880

Cicerone, un avvocato irreprensibile, un homo novus [6], senza nepotismi alle spalle, si scaglia in Senato contro il giovane Catilina reo di sacrilegi, omicidi, ruberìe e complotti [7]. Catilina è presente, durante l’invettiva, e lo guarda. Ma sono presenti anche tutti gli altri senatori (molti già corrotti da Catilina stesso). Cicerone lo sa che molte di quelle toghe sono colluse con Catilina…e che la Roma del tempo non è più quella del Mos maiorum. Ma non ha paura. Anzi: alza il dito puntato verso di lui, avanza contro. La sua è un’arringa piena di sdegno, di forza veemente, accesa, impetuosa:

“Fino a che punto abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? Quanto a lungo questo tuo furore si prenderà gioco di noi? Fino a che punto arriverà la tua sfrontatezza sfrenata? Non ti turbano per niente il presidio notturno del Palatino, le sentinelle notturne della città, il timore del popolo, l’affluenza di tutti gli onesti, questo protettissimo luogo per tenere la riunione del senato, la bocca e il volto di questi? Non senti che i tuoi piani sono svelati, non vedi che la tua congiura, conosciuta già da tutti questi, è tenuta sotto controllo? Chi di noi ritieni che ignori che cosa hai fatto la notte scorsa, che cosa in quella precedente, dove sei stato, chi hai convocato, quale decisione hai preso?  
Che tempi, che costumi!“.

Quanto è piena di forza l’indignatio dell’oratore, che rappresenta il Senato e quindi, il popolo di Roma! E non stiamo parlando di diffamazione verbale e di attacco fine a stesso, di accuse e controaccuse lanciate con grida e parole grosse ai talk-show mediatici…

Jean-Baptiste Wicar, Virgilio legge l’Eneide ad Augusto, Ottavia e Livia, 1790-1793

A un pubblico diverso, e non alto (il volgo delle strade) è rivolto l’attacco dello scrittore di satire Giovenale [8], che ambisce a proporsi quale “portavoce” della vera indignatio e si scaglia contro i falsi moralisti, le donne di facili costumi, i filosofi improvvisati, i corrotti. Gente di cui è piena la Roma dei suoi tempi… L’importante è fare arrivare la protesta. Infiammare gli animi.
Nel suo caso, si sceglie non l’oratoria per la protesta, ma la poesia. Cos’altro può arrivare subito e più facilmente a tutti?

Si natura negat, facit indignatio versum, qualemcumque potest [9]

E poi, cammina cammina, nei secoli… dopo l’indignazione di Gesù, che ha preso a bastonate i mercanti fuori dal tempio; si è indignato Dante, nel suo cammino oltre la vita, Foscolo, contro Napoleone, Leopardi contro la Natura e “chi non vuol vedere”, il Novecento nel suo lungo cammino contro i totalitarismi…e così via via. L’uomo ha lottato, il genio ha scolpito, dipinto, scritto, tramandato la sua forza dell’indignazione. Ai giovani è stato detto quello che, anche oggi, il Presidente Mattarella, ha citato nel suo discorso di fine anno 2021: “Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa” [10].
La forza di andare controcorrente, quando serve.

Ma oggi sembriamo non essere più capaci di indignarci.
Cerchiamo allora di riflettere sul perché, fuori da facili moralismi e discorsi vani. Forse abbiamo smesso di farlo perché abbiamo scoperto che non serve a nulla? Quando vedi il rappresentante della Giustizia intervenire a difesa degli amici potenti, quando scopri che i capi di Governo sono essi stessi evasori e corruttori, il passo successivo è lo scoraggiamento,  perché alla fine tutti restano al loro posto, senza dignità, senza rispetto per l’istituzione, che dicono voler rappresentare.
O forse no, non è scoramento o pessimismo ma la comprensione di come il marcio sia talmente diffuso ed entrato nella nostra quotidianità che non riesci più a distinguerlo dal resto, o a isolarlo: “Un chicco d’uva marcio genera uva marcia, e una malattia ad una pecora si attacca al gregge” come diceva Giovenale [11], duemila anni fa, e come vediamo, tristemente dal diffondersi del virus, nella pandemia dei nostri tempi. 

A questo si aggiunge spesso la mancanza di interlocutori, l’inutilità certa della protesta. E dunque si sta zitti nella certezza dell’incomprensione, attorniati da un’intolleranza, tanto urlata quanto vana.
Così sembra di vedere allontanarsi i valori per cui è stato lottato negli anni Sessanta. La lotta contro la guerra e la violenza, la lotta per il salario. I cortei studenteschi seguiti a prezzo di farsi anche cacciare da scuola (perché si usciva, anche fuggendo, magari dalla finestra dell’aula a pianterreno). Sì, perché fare sciopero, allora non era così facile e scontato. Il diritto allo sciopero è stato guadagnato con anni e anni di fatica, di sacrifici, di perdite di tutti i tipi.
Cosa rimane oggi di quella forza?  Talmente evidente sembra essere il fallimento di uno sciopero che i lavoratori accettano tutto, e oggi tutto quello che è, in realtà, mancanza o perdita di indignazione, si chiama resilienza. Resilienza…sembra una virtù, e alcuni ne vanno fieri… C’è solo da sperare che la resilienza, nella mente di qualcuno, non si trasformi in un nuovo Vangelo in cui la parola, decontestualizzata dal vero motivo per cui è nata, diventi sinonimo di “tanto non si può fare niente, sopportiamo”.
Sopportiamo?

Forse questo è solo un momento storico. Un momento storico che va comunque conosciuto, perché è assolutamente utile capire e decifrare il tempo presente per comprendere (non approvare, ma comprendere) il comportamento umano, e prendere posizione… 
L’Italia, d’altra parte, non è un popolo veloce, in certe reazioni. È stata calpestata e conquistata e ridotta allo stremo mille volte, ma la storia ci insegna che sempre, anche se all’ultimissimo respiro, è riuscita a riprendersi. E si è ripresa con forza, perché ha gente geniale, ed è prima nel pensiero, nell’arte, nella scienza. Sa rialzarsi. 
Nell’attesa di questa rinascita, studiamo, conosciamo, cerchiamo. Non accettiamo a scatola chiusa: la scienza, sia matematica, che scientifica, che letteraria, ci insegna l’indagine e la conoscenza, come mezzo essenziale. Se conosco sono, e se non si può comprendere, almeno proviamo a conoscere, cercando di essere persone ancora desiderose di porsi domande per evitare di pagare un prezzo del silenzio ancora più duro. Conoscere è necessario [12]. E auguriamoci di trasformare “quelli che vediamo oggi come problemi, in sfide e opportunità da cui ripartire” [13].

Non resta che concludere, e, per non essere di parte, proviamo a prendere per noi, le parole dei grandi:

 “A voi giovani dico: non abbiate paura di indignarvi, quando ci vogliono rubare la speranza, quando ci propongono questi valori che sono avariati;… questi valori ci fanno male. Dobbiamo andare controcorrente! E voi giovani, siate i primi: Andate controcorrente e abbiate questa fierezza di andare proprio controcorrente. Avanti, siate coraggiosi e andate controcorrente! E siate fieri di farlo!… Non portiamo con noi questi valori che sono avariati e che rovinano la vita, e tolgono la speranza[14].


[1] Michael Ende, La storia infinita, Longanesi, nel libro (così come nel film omonimo). Bastian un bambino bisognoso d’affetto e deriso dai bulli della scuola, si nasconde in una biblioteca, fra i libri che ama. Qui, verrà “ingaggiato” per salvare il regno di Fantàsia dal nulla che lo soffoca: una nebbia di indifferenza e di dimenticanza.

[2] In greco: ἀγανακτέω ἐπί τινι, indignarsi contro qualcuno.

[3] Il prefisso IN- in latino, può indicare mancanza, privazione, contrarietà, opposizione, oltre che andar contro e andar dentro.

[4] Potere del demos, cioè il popolo tutto unito, senza distinzioni di alto e basso, dal momento che, come sappiamo, nella democrazia del quinto secolo a.C. a tutti era permesso, essere eletti per governare lo stato. Il più alto grado di isonomia, cioè di parità.

[5] L’oratore deve saper trovare i mezzi retorici più adatti per sostenere l’accusa; e anche l’invettiva ha bisogno di uno stile appropriato (cfr. Cicerone, De oratore, III, 55, 211).

[6] Professionalmente cresciuto senza le spinte di nessuno e senza nessun aiuto. Era un homo novus, quando era il primo della sua famiglia ad intraprendere il Cursus honorum.

[7] Il giovane Catilina, che si era arricchito seguendo il tiranno Silla, ma desso che è tornata la Repubblica, non può sopportare di trovarsi senza soldi, senza aiuti politici, senza la vita facile di prima. Così, con l’aiuto e la complicità di Senatori che egli ha corrotto in vario modo, si dà ai furti, alle rapine, ai complotti. Adesca giovani desiderosi di una vita facile, promettendo loro cavalli e divertimenti. E arriva a tutto, anche ad organizzare un colpo di Stato contro la Repubblica. e un agguato (poi scoperto in modo fortunato e sventato, contro lo stesso Cicerone).

[8] Giovenale (I-II sec. d.C.), ha scritto Satire, ma molto lontane dall’ironia sorridente e benevola di Orazio; nemmeno possiede la serenità moralistica di Cicerone; la sua poesia è tipica di chi non può più trattenersi e riflette piuttosto una visione amara e sarcastica della vita, ricca di acredine. Il poeta vuole apparire sdegnato e desidera suscitare l’indignazione del pubblico.

[9] Giovenale, Satira I: “Se il genio non me lo concede, detta i versi l’indignazione, così come può.“

[10] Il Presidente Mattarella ai giovani, citando il prof. di filosofia di Ravanusa, morto nel crollo dei palazzi, che, andando in pensione due anni fa aveva lasciato una lettera ai suoi alunni.

[11] Giovenale, Satira VI.

[12] Primo Levi, introduzione, Se questo è un uomo, Mondadori

[13] Alessandro Rosina, L’Italia che non cresce, Laterza

[14] Papa Francesco, Angelus del 23 giugno 2013.