Pierluigi Finolezzi
Amai teneramente dei dolcissimi amanti
senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
della santa della sanguinaria e dell’ipocrita.
Molti diedero al mio modo di vivere un nome
e fui soltanto una isterica.
Soli otto versi bastano ad Alda Merini per incastonare in un testo poetico tutta quanta la sua vita e la sua esperienza di scrittrice e poetessa. Di lei, negli ultimi anni, si è detto e scritto un po’ di tutto, alcuni l’hanno definita una pazza, un’autrice psicologicamente complicata ma dalla poesia semplice e in pochi hanno saputo riconoscere la profondità dei suoi versi alimentati da parole vive e rare, capaci di ritagliarsi spazi sempre più importanti nella complessità del mondo e dell’esistenza. Nata il ventuno a primavera del 1931, Alda è sin da subito consapevole che con il suo nascere folle avrebbe scatenato tempesta e così fu da quando a quindici anni rischiò di essere licenziata dallo studio notarile in cui lavorava come segretaria perché sorpresa a battere versi sulla macchina da scrivere del suo ufficio. Un amore, quello per la poesia, sbocciato prematuramente e germogliato nella distesa di intellettuali, poeti e scrittori con cui la Merini dialogò ogni giorno. Un dialogo continuo quello della “poetessa dei Navigli” qui riproposto in un componimento tratto dalla raccolta La Gazza Ladra del 1985, dove l’autrice traccia venti poesie-ritratto di se stessa.
Ricco di riferimenti è il primo verso che apre lo sguardo sull’immenso mondo di modelli sulla quale la Merini intessette le tele di ragno della sua poetica, divenendo preda della sua stessa materia. È proprio dietro quei dolcissimi amanti che si celano i volti e le parole dei poeti del passato e del presente con cui Alda ha dialogato in ogni istante della sua esistenza. Un repertorio tanto vasto, quanto è vasta l’intera storia dell’uomo, che abbraccia l’intero repertorio della letteratura dai lirici greci sino al contemporaneo Pasolini.
Sua amante fu Saffo, conosciuta grazie alle traduzioni dell’amico Salvatore Quasimodo, dalla quale metabolizzò ambienti, paesaggi lunari e sentimenti vari e con cui condivise l’inquietante e disperata solitudine di amore. Alda incontrò e amò poi la poetessa statunitense Sylvia Plath, suicida nel 1963 a soli trent’anni, e con lei condivise la sua condizione di emarginata e dialogò sul tema della morte. Entrambe furono incomprese in un mondo che si legava sempre di più a degli stereotipi e non si curava di chi aveva perso la bussola, finendo per diventare serpente di se stessa mentre si dimenava e si abbuiava nel lento trascorrere del tempo. E ancora Giorgio Manganelli, suo amante spirituale e carnale, che introdusse la quindicenne Alda nei salotti buoni della Milano del Dopoguerra.
Tanti ebbero la fortuna di farle visita nella sua casa milanese, tra di loro Giacinto Spagnoletti, Giovanni Raboni, Mario Luzi, i già citati Quasimodo e Manganelli, e Pier Paolo Pasolini al quale la poetessa concesse più di un’intervista. Tutti furono suoi estimatori che la supportarono più volte per un Nobel che non vinse mai e tutti furono suoi mentori, attraverso i quali la “matta del Naviglio” filtrò la sua anima, facendole assumere aspetti diversi nel corso della sua esperienza poetica. La Merini ebbe un’anima da meretrice, quando si abbandonò all’amore clandestino con Manganelli che era già marito e padre, da santa quando diede voce alla sua metafisica profonda e spirituale nella raccolta Terra Santa, da isterica quando una crisi psichica la costrinse all’internamento in manicomio per lunghi dieci anni che la stessa Merini ha definito nel suo epistolario come luogo di caos infernale. Anche qui Alda trovò rifugio nella poesia e nella scrittura, soprattutto grazie al sostegno dello psichiatra Enzo Gabrigi che le mise a disposizione una macchina da scrivere nella convinzione che la sua paziente non fosse realmente folle, ma semplicemente vittima di un trauma interiore.
L’esperienza manicomiale segnò profondamente la vita di Alda Merini e andò ben oltre il suo internamento. Superati quegli anni infernali la “poetessa dei Navigli” continuò la sua produzione poetica, in realtà mai interrotta, dando alle stampe alcune delle più belle poesie di vita e di amore del Novecento, pur se molti continuarono a dare al suo modo di vivere un nome. E così per tanti molto approssimativamente fu soltanto una pazza, per altri una matta sfaccettata, per altri ancora una sanguinaria, ma a dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il I novembre 2009, non si può che ammettere l’originalità e la genialità di una donna, che nonostante la sua complessità, è riuscita senza alcun dubbio a lasciare una traccia di sé nel panorama letterario contemporaneo.