di Enrico Molle
La lettura del Deserto dei Tartari, il romanzo che consacrò Dino Buzzati tra i grandi scrittori della letteratura italiana del Novecento, è stata una delle più piacevoli e dolci che io abbia mai affrontato, evento non scontato per uno come me, che inizia molti libri e ne porta a termine pochi.
Ricordo con precisione che la spinta per questa lettura mi fu data dalle parole dell’autore stesso che, in un’intervista rilasciata all’epoca della pubblicazione del romanzo (anni Quaranta del secolo scorso), affermò che l’ispirazione per scrivere questo racconto gli fu fornita dalla monotona routine che aveva caratterizzato un certo periodo della sua vita. Ciò fece maturare nello scrittore l’idea che proprio in quella monotonia si sarebbe potuta consumare inutilmente la sua esistenza.
Di fatto il romanzo ruota principalmente attorno al concetto della fuga del tempo, tematica che nel particolare momento che ci ritroviamo a vivere, in cui interi Stati sono costretti a un blocco quasi totale a causa del virus noto come Covid-19, tende a essere molto attuale. Intere giornate passano senza che nulla accada e ognuno di noi sembra essere destinato a subire una monotona routine che ci avvolge lentamente nella sua spirale e ci consuma poco per volta.
È ovvio che quando lo scrittore bellunese concepì e poi scrisse Il deserto dei Tartari, non poteva immaginare minimamente, nemmeno nei suoi incubi peggiori, che gran parte della popolazione mondiale avrebbe potuto vivere, seppur con le dovute differenze, le stesse sensazioni del protagonista del romanzo.
Ambientata in un paese immaginario, l’opera ci racconta la storia di Giovanni Drogo, un sottotenente che viene inviato a prestare servizio nella Fortezza Bastiani, ultimo e isolato baluardo che sorveglia una pianura desolata, chiamata appunto deserto dei Tartari, un tempo luogo di grandi battaglie e incursioni nemiche, ma che ormai da moltissimi anni non vede apparire nessuna minaccia all’orizzonte.
La Fortezza, dunque, svuotata della sua importanza strategica, finisce per divenire un posto desolato nel quale si vive attendendo una guerra che presumibilmente non arriverà mai. Il sottotenente Drogo, appena arrivato nella roccaforte percepisce l’appiattito stato d’animo che pervade gli altri ufficiali che ci vivono da molti anni e, spaventato, prova a distaccarsene. Tuttavia, con il passare del tempo, lui stesso diventerà vittima dell’abitudine, quell’abitudine all’attesa, all’attendere che qualcosa finalmente arrivi o che tutto finisca. La passività nell’osservare i giorni che si susseguono senza tregua, seppur in maniera pacifica, finisce per annebbiare persino la paura della battaglia stessa e del nemico.
È inevitabile percepire questa metafora dell’esistenza, ora più che mai, come attuale e pertinente al periodo storico che, nostro malgrado, stiamo tutti vivendo. Molti di noi, soprattutto quelli che hanno la fortuna di vivere in zone isolate o distanti da quelle maggiorente colpite dal virus, in questi giorni sono pervasi dalle stesse sensazioni che il protagonista del romanzo di Buzzati annota nella sua esperienza. In qualche modo cadiamo lentamente e inevitabilmente vittime di questa alterazione del tempo, in cui tutti i giorni sembrano essere uguali e proprio la fortuna di vivere in realtà dove tutto arriva in maniera più ovattata, tende a renderci distanti e distratti dal dramma al quale siamo costretti ad assistere.
Il virus, come i Tartari, è un nemico invisibile, un non-nemico per eccellenza, che per molti di noi si manifesta attraverso la solitudine e la percezione alienante dello scorrere del tempo.
Nel romanzo gli anni passano e Drogo, dopo averlo desiderato fortemente, riceve una licenza per tornare a casa. Tuttavia, una volta arrivato, non ritroverà gli affetti, i volti e i luoghi del cuore che aveva lasciato: pervaso da una sensazione di smarrimento inaspettato, dopo essere stato lontano e isolato dal resto del mondo per tutto quel tempo, il protagonista non li riconoscerà più. Eppure nulla è mutato, al contrario è lui a essere cambiato, avendo ormai alterato la sua percezione della realtà e trasformato il senso di familiarità in pura estraneità.
Ne Il deserto dei Tartari, l’isolamento forzato diventa l’allegoria di una vita priva di senso, consumata nell’attesa di un qualcosa che il più delle volte è lontano, irraggiungibile, o semplicemente non esiste. Il tutto culmina nello scorrere irrefrenabile del tempo che spinge a vedere la fine di tutto come la “grande occasione”, facendo della morte l’unica vera battaglia che ognuno di noi potrà affrontare dopo essersi preparato per tutta la vita.
Ovviamente, in questo racconto tale metafora è portata al suo punto più estremo, ma alla luce della battaglia che tutti stiamo combattendo in questo momento, il messaggio lanciato dal romanzo di Dino Buzzati, estrapolato e attualizzato, funge da monito e ci mette tutti in guardia: non dobbiamo lasciarci attraversare l’animo dall’inesorabilità del tempo che scorre, al contrario dobbiamo riuscire, nonostante le necessarie restrizioni, a organizzare la nostra resistenza contro l’insensatezza di un nemico sconosciuto. Nel nostro piccolo dobbiamo aggrapparci alla vita, il nostro tesoro più grande, sentirla scorrere nelle vene proprio ora che centinaia di migliaia di persone lottano con veemenza per onorarla. Probabilmente per molti di noi non si presenterà più l’occasione di avere così tanto tempo libero a disposizione, quindi, tutti coloro che hanno la grandissima fortuna di non essere toccati in prima persona da questo nemico invisibile, hanno l’obbligo di dedicarsi alle passioni, agli affetti, ai pensieri che li fanno sentire vivi e coraggiosi e che possono convincerli che quest’ombra è solo passeggera.
In tal modo la negatività di questo periodo potrà essere trasformata in un messaggio di attesa e speranza, sulla linea di quell’“attendere e sperare” che tanto piace alla letteratura e a chi la ama, che troviamo nell’ultima pagina de Il Conte di Montecristo[1], che spinge Dino Buzzati a prendere consapevolezza e a scrivere Il deserto dei Tartari, che ogni persona dovrebbe custodire come uno dei più grandi insegnamenti che ci sono stati impartiti dalla storia.
[1] Le parole “attendere e sperare” sono pronunciate da Edmond Dantés nell’ultima pagina del romanzo di Alexandre Dumas.