Otranto, Puglia
di Adele Errico
Il ritratto di Idrusa ne L’ora di tutti di Maria Corti è uno tra i più suggestivi e compiuti ritratti femminili del romanzo italiano del secondo Novecento. Idrusa è forza dell’immaginazione, segreta esplosione di sentimenti e ferma volontà di vivere sotto la trappola della quotidiana monotonia e liturgia della consuetudine. Il suo monologo si trova al centro tra le quattro voci maschili ed è lei sola protagonista indiscussa dell’intera seconda parte del romanzo.
Tratti mitici ha Idrusa, otrantina la cui straordinaria bellezza è paragonata da Luigi Scorrano a quella di Elena: infatti, sebbene circoscritta a Otranto, la sua bellezza appare assoluta, imparagonabile; è l’unica figura femminile di concreto rilievo ed in confronto ad essa le altre figure del romanzo risultano notevolmente ridimensionate.
C’è in Idrusa una sorprendente combinazione di impulsi passionali, nati da un bisogno irrefrenabile di vivere, e di lucida consapevolezza delle proprie azioni: questo aspetto fa di lei un personaggio moderno, descritto nelle sue modulazioni psicologiche; sembra “fatta di arcobaleno” (p. 171) nelle parole della sorella; eppure, il suo sguardo è il solo capace di oltrepassare la fissità dei colori:
Quando iniziavano a pulire la cicoria, il tufo delle case era grigio con qualche vena del celeste, ma entro una mezz’ora cambiava colore e all’inizio del rosario era azzurro scuro; pochi minuti dopo che eravamo entrati in casa si faceva bluastro come la notte (p. 184).
La capacità di scrutare la realtà lucidamente resta intatta anche nella situazione tragica dell’invasione turca: sotto le bombarde, mentre i turchi fanno breccia nelle mura otrantine, la fanciulla ha una visione chiara e disincantata della propria vita, consapevolezza di quanto sia fragile l’equilibrio di tutti i tasselli della propria esistenza, che da un momento all’altro possono scardinarsi e scivolare nell’abisso:
Ecco, io, Antonio, Manuel, le sedie della mia casa, il mio cortile, il secchio della cisterna, eravamo tutti in una rete, c’era anche don Felice, che camminava con la pancia in fuori sui tappeti della sala, c’erano i candelabri del palazzo, c’era tutto; ma bastava prendere un capo del filo, tirarlo ed ecco che scivolavamo ciascuno per conto suo in un grande mare; era così dunque? A uno non restava niente? (p. 267)
Non a caso a Idrusa è affidato il compito di pulire i morti che vengono portati nella cattedrale, il luogo in cui durante l’assedio si rifugiano tutte le donne otrantine con i bambini. Padre Epifani la individua subito come la sola capace di compiere tale lavoro grazie ad una superiore capacità di straniamento rispetto alle altre donne.
Per Idrusa è troppo piccolo il mondo che le è toccato in sorte, l’ambiente in cui è nata le sta stretto e non è in grado di adattarsi ad esso, perché non può accontentarsi di adeguarsi alla vita che fanno le altre otrantine, come lei mogli di pescatore, che aspettano il ritorno dei propri uomini da lunghe e interminabili giornate in mare, lontani da casa, e colmano la loro assenza lavorando tutto il giorno e facendosi compagnia l’una con l’altra.
Costantemente combattuta tra il senso del dovere e l’aspirazione a essere lontana dal luogo in cui vive, Idrusa è guidata, nel groviglio di impulsi e desideri che avverte, non dal dovere o dal buon senso, ma dalla ricerca dell’ultima e perenne felicità: ricorre spesso, infatti, in questo capitolo il riferimento alla felicità ma, altrettante volte, ricorre un desiderio di morte che scaturisce proprio dall’incapacità di perseguirla, poiché nel momento in cui sembra raggiunta qualcosa ne provoca l’irrimediabile rottura e nella mente della donna nessun aspetto del mondo che la circonda sembra darle una motivazione per continuare a vivere. Si rileva un alternarsi tra la ricerca della felicità e la ricerca della morte, volute, si potrebbe dire, quasi allo stesso modo e con la stessa intensità.
L’idea di felicità proposta ne L’ora di tutti è quella di felicità mentale complessiva, umana ed esistenziale. L’arrivo dei Turchi a Otranto e l’incombere della morte sembrano far comprendere ai personaggi che la felicità si raccoglie negli attimi di esistenza che devono essere ben custoditi nella memoria di ciascuno. Così, il racconto di Idrusa sembra snodarsi proprio in un perseguimento incessante e consapevole della felicità, tanto consapevole da spingerla a porsi, fin da giovanissima, una domanda precisa, inequivocabile:
Sprofondavo fino al ginocchio nella sabbia, finché arrivata alla Punta, mi sdraiavo con le mani dietro la nuca e restavo così magari un’ora, fissando un giglio che dondolava nell’aria, domandandogli: “Come si fa ad essere felici?” (p. 165)
A parere di chi scrive è interessante che questa caratteristica del personaggio venga presentata immediatamente, già dalle prime righe, e rimanga costante in tutto il capitolo; il lettore accompagna la protagonista in questo percorso di ricerca, durante il quale la felicità è fortemente agognata, trovata e infine perduta.
La diciassettenne Idrusa, per volere della sorella, va in sposa ad Antonio, un brav’uomo perdutamente innamorato di lei, che fa il pescatore. Idrusa è forse troppo giovane e ingenua, non è ancora consapevole della propria straordinaria bellezza e non riesce a comprendere perché Antonio provi per lei una così forte passione, – “una furia per me misteriosa” (p. 166) racconta Idrusa – nella quale non riesce a farsi coinvolgere, anzi resta “immobile con gli occhi spalancati nel buio, nauseata” (p. 166) ma il senso del dovere prende il sopravvento e allora la giovane fa di tutto per svolgere al meglio il suo ruolo di moglie. Tuttavia, una forte curiositas relativa ai suoi sentimenti non la abbandona mai e la spinge a parlare con la sorella, la quale rappresenta una confidente ma allo stesso tempo proprio quello che Idrusa non vuole essere, colei che riesce a conformare la propria vita a quella di tutte le altre otrantine e che non comprende minimamente l’aspirazione della sorella alla felicità, definita come una delle sue tante “stravaganze” (p. 168).
Il cambiamento giunge inaspettato nell’occasione della processione in mare per i Santi Medici, durante la quale Idrusa vede per la prima volta Manuel, l’ufficiale spagnolo, e la sensazione di avvertire i suoi occhi fissi su di lei le sembra una novità. L’incontro di sguardi scatena qualcosa nella mente della donna, qualcosa che inizialmente non riesce a spiegare: il pensiero di Manuel rimane sopito per i primi tempi, sepolto sotto l’impegno delle faccende domestiche ma poi riaffiora inaspettatamente e il rivederlo in mezzo alla piazza fa sì che l’immagine di lui si insinui nella mente di Idrusa per non lasciarla più. Allora un’idea di felicità prende forma e ha il volto di Manuel. Il desiderio che la donna tenta per molto tempo di soffocare ha realizzazione la sera della festa dell’Assunta, durante la quale avviene il loro primo incontro d’amore.
Finalmente Idrusa conosce la gioia più grande e riesce a comprendere pienamente che aspetto abbia la felicità che cercava. Però, al tempo stesso, quel sentimento le suggerisce, come scrive Luigi Scorrano in Carte inquiete, che “anche le cose più amate sono legate ad un tempo senza ritorno”:
La mia felicità fu così grande quella notte che per tutta la vita aspettai qualcosa che le somigliasse, ma felici si è solo per qualche attimo, e in un modo del tutto imprevisto. (p. 205)
In queste parole è racchiuso tutto il senso della vita di Idrusa: proprio quell’incontro, secondo Scorrano, rappresenta per il personaggio femminile della vicenda “l’ora di tutti”, la sua ora, il suo momento che non è affatto quello della morte ma quello in cui decide che direzione dare alla propria vita, quello del profondo innamoramento: Idrusa sceglie di amare in maniera assoluta, di vivere con coscienza gli attimi più belli della sua esistenza, di inseguire la felicità senza paura delle convenzioni e dei limiti sociali.
La fine della storia d’amore con Manuel è la fine della felicità. L’intero universo perde il senso che Idrusa aveva scoperto durante la sua “ora di tutti” e l’indifferenza dell’amato, il sentirsi l’una con l’altro estranei spinge la donna a pensare “che l’intero mondo non valesse un guscio vuoto di cozza”. (p. 254) Il desiderio di morte è la prima reazione all’abbandono:
Mi sedetti sul gradino d’ingresso dell’orto, il sole scottava. E di me che cosa potevo fare? Tutto quello che avevo desiderato, era finito. Potevo morire. (p. 232)
Non si dispera Idrusa per la fine di quell’amore, non si scompone, non piange, non si lacera le vesti ma prova una indefinita incapacità di stare al mondo e si rifugia nell’automaticità dei gesti quotidiani, nello svolgere con grande precisione le faccende domestiche. Di giorno lavora e appena è buio si stende cercando di tenere la mente libera, di non soffermarsi su nessun pensiero particolare:
Quando veniva notte e non potevo più lavorare, mi coricavo subito, ma anche allora non nasceva nessun pensiero preciso, tante immagini si facevano e disfacevano da sole come dentro le nuvole bianche che, mosse dal vento di scirocco, disegnano facce, cavalli, cuscini, fiori, che poi muoiono nel cielo. (p. 256)
L’insofferenza alla vita, tuttavia, non si manifesta nel personaggio di Idrusa solo dopo l’incontro con lo spagnolo. È una sensazione che le appartiene come peculiarità, la vive quotidianamente poiché a provocarla è una tensione continua alla felicità che genera il desiderio di morte nel momento in cui essa non viene raggiunta o, se appena ottenuta, si dissolve.
Tale desiderio si può riscontrare, già tra le prime pagine, nella consapevolezza dell’insoddisfazione del matrimonio con Antonio quando la morte è immaginata come prima soluzione:
Potevo uccidermi, e così era finita, ma mi dispiaceva l’idea di non parlare più, di non fare più i bagni, di essere mangiata dai vermi. (p. 169)
In seguito alla vicenda con Manuel, a Idrusa non importa più di vivere o di mantenere integra l’immagine di sé o la propria reputazione. Si lascia corteggiare da Don Felice e si reca da lui a palazzo anche dopo che la sua preghiera di mandar via Manuel da Otranto era stata esaudita, senza sentirsi offesa dalle voci di paese e senza dar retta agli avvertimenti della sorella, che la accusa di saper vivere solo nel peccato. Idrusa accoglie i regali e le attenzioni di don Felice per “non pensare ai cocci della mia vita” (p. 258) e il palazzo di don Felice rappresenta, così, un rifugio per la sua anima, in cui far riposare lo strazio della sua esistenza, mentre vesti e broccati da signora colmano un po’ il suo vuoto interiore. Un ricordo, improvviso e doloroso come uno schiaffo, riaffiora nella mente di Idrusa a confermare come la propensione a cercare la morte, o quanto meno qualcosa che le somigliasse, sia radicata nel profondo della sua psiche, quanto appartenga ad una dimensione infantile, ad un’idea già definita nella sua mente di bambina:
Io volevo distruggermi, sissignore, e questo lei non lo capiva. Mi ricordai di quand’ero piccola. Si giocava nell’acqua del porto a chi colpiva più lontano il sughero con una pietra; se uscivo sconfitta dalla gara, mi prendeva verso di me un’ira così feroce che mi buttavo in acqua, mandavo sotto la testa e restavo così fin quando mi sentivo morire; era solo la nausea dell’acqua ingollata che mi riportava a riva. Una volta se ne accorse Colangelo, il marito dell’Assunta, che allora era un ragazzetto e giocava con noi: “Ma guarda come sei stupida,” disse. “Lo sai che così si muore?”
“Lo so.”
“E vuoi morire?”
“E a te che te ne importa?”
“Ma tu sei una femmina. Non vedi che tremi?”
“Io non tremo per niente,” gridai, e mi sarei ributtata in acqua, se lui non mi avesse tenuta per un braccio (p. 256).
Idrusa vuole ributtarsi in acqua per poter sostenere il diritto all’autodeterminazione, per contrapporsi a Colangelo che vorrebbe impedirle, in quanto donna, di poter affermare la volontà di morire.
Estrema tanto nel vivere, tanto nel morire, nella cattedrale invasa dai turchi, Idrusa muore pugnalandosi il petto per non soggiacere alla violenza del nemico. L’Idrusa cortiana è il personaggio nel quale, secondo Oreste Macrì, si congiungono le caratteristiche del «femminile, folle e fantastico», è la donna il cui nome ricorda «una cavalla da corsa, grondante sudore» (p. 214), è la dea ex machina della vicenda, la moglie insoddisfatta di Antonio, l’amante delusa di Manuel, la «Dulcinea di uno spirituale Don Chisciotte, vecchio gentiluomo iberico che muore fra le sue braccia», scrive Beatrice Stasi. Ne L’ora di tutti Idrusa è diversa dalle altre donne rifugiate nella cattedrale: senza disperazione, attende la sua ora e quando i turchi invadono la chiesa, la donna dà prova del suo grande coraggio e strappa Alfio, il figlio di Assunta e Colangelo, dalle braccia dei nemici. Ma non riesce a proteggerlo ed è assalita da uno di loro. Allora con orrore, osservando la smorfia di gioia sul viso del turco nel notare la sua bellezza, realizza le sue intenzioni e, per sottrarsi allo stupro, si trafigge il petto col pugnale del carnefice:
Scivolata sul pavimento vidi, per un attimo, sopra di me gli occhi del turco, che mi guardavano stupefatti, pieni di interrogazione; altri vicino, scoppiarono in una risata e la faccia del turco scomparve. Vedevo un gran cielo rosso sopra la mia testa e tutti i rumori si allontanavano; anzi scese una grande calma sotto il peso di quel cielo rosso; solo da molto lontano mi arrivava una voce che diceva: “Idrusa, che Dio ti benedica, piccina.” Doveva essere la voce di padre Epifani, così mi pareva, ma non potevo rispondere, ero ormai lontana, così lontana da quella voce. (p. 271)