Pierluigi Finolezzi
L’esperienza esistenziale dell’essere umano è fortemente segnata dalla presenza della figura materna che ne influenza in parte la crescita a volte positivamente e in altri casi negativamente. Nonostante la centralità del tema a livello umano, il rapporto madre-figlio, fatta eccezione per sporadici richiami da parte di Jacopone da Todi, Dante, Leopardi, Foscolo e Manzoni, non ha grande letteratura sino alle soglie del secolo scorso. È, infatti, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che, con il diffondersi della struttura familiare nucleare a scapito del modello familiare patriarcale, le figure genitoriali assumono una posizione di rilievo e diventano un’occasione di confronto decisive per mettere alla prova la propria identità. Su questa scia si innesca anche la nascita della psicoanalisi che con Sigmund Freud indaga sulle relazioni familiari e, in particolare, sul complesso edipico: il rapporto tra madre e figlio smette di essere considerato in maniera idealizzata e viene calato nel vivo di un’inquietudine psicologica ricca di ambivalenze e contraddizioni.
Le teorie freudiane esercitano la loro influenza anche sulla letteratura, in particolare, su gran parte dei componimenti poetici dedicati alle madri dai grandi letterati del Novecento. L’importanza di questa svolta può essere constatata accostando la poesia Consolazione di Gabriele D’Annunzio con Preghiera alla madre di Umberto Saba. In D’Annunzio, la madre è stata abbandonata in un momento di fuga, ma può essere riscoperta con il ritorno all’affetto protettivo e la rinuncia ad ogni sorta di esibizionismo estetizzante (Torna il diletto figlio/ a la tua casa. È stanco di mentire.). La relazione, interpretata come un desiderio che provoca un sogno regressivo (Vieni; usciamo, v. 3; sogna, v. 33; sogniamo, v. 45; sorridiamo, v. 46) può diventare comunque qualcosa di felice, immediato e autentico, basta che il figlio lo voglia e ritorni a compiere gli stessi gesti del passato (sonerò qualche vecchia aria di danza, v. 57; Tutto sarà come al tempo lontano, v. 65). In Saba, invece, si percepisce l’influsso della terapia psicoanalitica (vv. 6-15) che rievoca la figura della madre, ormai morta, nella mente del poeta. L’infanzia di Saba fu segnata da un rapporto turbolento con la madre (sì acuta era la pena, v. 3) che il poeta ha da molto tempo dimenticato (ieri in tomba obliata, v. 5), ma che la memoria, sollecitata dallo psicoanalista, ha consentito di rievocare (oggi rinata presenza, v. 6) insieme al desiderio di un nuovo rapporto madre-figlio (presaga gioia io sento/ il tuo ritorno, vv. 11-12). Questa volontà è, però, un mesto sogno, a meno che, stanco della vita e giunto ad un momento di crisi, il poeta non annulli se stesso, ricongiungendosi definitivamente con la madre (farmi, o madre/ come una macchia dalla terra nata, /che in sé la terra riassorbe e annulla, vv. 25-27).
Ancora ancorato ad una prospettiva materna di matrice religiosa è Giuseppe Ungaretti nella poesia La madre, in cui il poeta immagina, dopo esser morto, di presentarsi al cospetto di Dio e di ottenere il perdono dall’Eterno proprio per intercessione della madre che finalmente potrà ritornare a guardarlo e a sorridergli come un tempo (E il cuore quando d’un ultimo battito/ avrà fatto cadere il muro d’ombra/ per condurmi, Madre, sino al Signore, /come una volta mi darai la mano, vv. 1-4). La madre che ci ha messo al mondo diviene in Ungaretti l’emblema di un amore che sopravvive alla morte e di un passato dal quale è impossibile staccarsi, rendendoci memori per sempre di tutte le volte in cui ella è stata di conforto e di coraggio e per le quali dobbiamo necessariamente dirle “grazie” (ora ti ringrazio, /questo voglio, dell’ironia che hai messo/ sul mio labbro, mite come la tua; S. Quasimodo, Lettera alla madre, vv. 17-20). Ad una prospettiva più materialistica si ricollega, invece, Montale, che in A mia madre, sostiene l’inseparabilità tra la vita e il ricordo della madre. La donna supererà l’oblio della morte non in nome dei valori religiosi in cui credeva, ma per il ricordo lasciato nei vivi con l’irrepetibilità dei suoi gesti e della sua unicità umana (i gesti d’una/ vita che non è un’altra ma se stessa, vv. 11-12).
Originali sono le rappresentazioni materne di Giorgio Caproni e di Pier Paolo Pasolini. In Ultima preghiera, Caproni si rivolge alla madre morta con una leggerezza malinconica e rasserenante, nata dalla necessità di un incontro generato dallo sconforto, dal pianto e dal rimorso. Il poeta ricerca la madre Annina nella vivace frenesia della Livorno contemporanea che sembra far prendere forma ad una dimensione collocabile a metà strada tra un passato ritornato presente e un luogo del sogno e dell’interiorità. Elemento assoluto di novità che, senza dubbio, non trascende dall’influenza psicoanalitica è la dichiarazione di amore profferita secondo una prospettiva quasi infantile nell’ultima strofa, in cui il poeta si dichiara al contempo figlio e fidanzato della propria madre (Dille chi ti ha mandato: suo figlio, il suo fidanzato; vv. 80-81). In Pasolini (Supplica a mia madre) la preghiera si fa supplica e la dolcezza materna controbilancia la durezza paterna. Il poeta dichiara qui tutta la sua angoscia e il patimento per una “dannata solitudine”, dovuta all’insostituibilità della madre (Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai data, vv. 7-8). Il vincolo affettivo con essa e la mancata elaborazione di un rapporto tragicamente edipico suggeriscono un legame con l’omosessualità del poeta (E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame/ d’amore, dell’amore di corpi senz’anima. /Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu/ sei mia madre è il tuo amore è la mia schiavitù, vv. 8-12). È difficile dire con parole di figlio/ ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. / Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore/ ciò che è sempre stato, prima d’ogni altro amore (vv. 1-4): nessuna può essere mai amata come la madre e nessuna può prendere il suo posto nel cuore di Pasolini. Il rapporto madre-figlio che in Caproni assume le forme di un amore possibile diventa nell’intellettuale “corsaro” un amore-tormento che logora e consuma l’esistenza.
Dai versi sinora esaminati appare evidente che i vari poeti, come qualsiasi altro figlio, vivono in rapporto alla loro madre come dinanzi ad un bisogno necessario che li rende dipendenti e li tiene attaccati a un qualcosa che fa parte di loro stessi. Un tentativo di evasione da questo stato di bisogno/dipendenza ci viene offerto da Alda Merini, che in Tu eri la verità, il mio confine presenta il complesso materno da un punto di vista femminile: la figlia cerca invano un’autonomia dalla madre, sfidandola sulla sua superiorità di donna adulta. La poetessa, infatti, vede in chi l’ha messa al mondo una onnipresenza e una dottrina che la incatenano e le danneggiano l’integrità psichica, e per questo ingaggia la sua battaglia contro di lei da cui ne esce completamente sconfitta (ne sono riuscita vuota, vv. 7-8). L’allontanamento dalla madre, seguito al tentativo di competizione, provoca smarrimento e solitudine e per questo la figlia cerca di recuperare la figura materna attraverso la poesia (gli oscuri argomenti della lira, v. 13) che con la sua forza eternatrice riesce a vincere le radici-spirali degli alberi e a consentire ad Alda di individuare tra gli spiriti quello nel quale è possibile riconoscere i tratti della madre ormai morta. Nel grido di ribellione della Merini può intravedersi il contesto socio-culturale degli Anni Settanta, quando la contestazione giovanile e la critica femminista aprono una nuova breccia all’interno dei legami parentali. La moltitudine di funzioni, affidate alla figura materna dalla famiglia borghese tra le mura domestiche, può provocare un annientamento della personalità e della vita stessa dei figli: è da focolai come questo che nasce lo spirito ribelle della nuova generazione. La famiglia, rigidamente arroccata nelle sue convenzioni, inizia ad essere bersaglio perché è ormai incapace di fornire ai figli orizzonti etici e culturali e si dimostra, al contrario, fortemente ancorata all’egoismo del nucleo privato. È contro le madri incapaci di amare, “servili” ai dettami di questo tipo di famiglia ed eccessivamente “vili” che inveisce ancora Pasolini nella Ballata delle madri e si innesca la protesta femminista che cerca di spogliare la donna del suo unico ruolo materno mettendone a nudo tutte le altre potenzialità. L’esaltazione della maternità, tanto osannata dal fascismo e dalla politica del Dopoguerra, diventa emblema della segregazione sociale della donna che provoca degli effetti negativi anche sui bambini: se la donna è solo madre diventa schiava del suo ruolo e, di conseguenza, rinunciando a tutte le sue altre possibilità, destina alla schiavitù anche i propri figli. A rispondere a questa nuova esigenza sono ancora le attiviste del movimento femminista che, rivendicando una divisione dei compiti e delle responsabilità nell’educazione filiale, dichiarano di voler vivere la maternità non come loro unica realizzazione, ma come diritto su cui possono esprimersi indipendentemente dalla volontà dell’uomo, consapevoli ormai che non basta essere buone madri, ma piuttosto occorre essere madri felici che sappiano trasmettere la loro felicità a bambini felici (Rivista Effe, n. 1, 1977).