di Adele Errico
Un uomo e una donna si tengono per mano. Li vediamo di spalle, gli occhi rivolti alla steppa siberiana inondata di sole. Lui è uno degli assassini più famosi della letteratura, lei è la via per la salvezza.
Nel finale di Delitto e castigo, Raskòlnikov e Sonja si tengono finalmente per mano: Raskòlnikov prende tra le sue quella mano magrolina – “Sempre gli tendeva timidamente la mano, qualche volta non gliela tendeva addirittura, quasi temesse di vederla respingere” (p. 411) – che sembra abbia le dita trasparenti – “Avete una mano proprio trasparente! Avete le dita d’una morta.” (p. 245) -, la stringe e lei sa, in quel momento, che la felicità è arrivata, una felicità “tanto inaspettata che quasi le faceva paura” (p. 412). Ma non può fare più paura dello squallore e dell’abiezione della sua vita precedente, quella vita in cui la felicità era solo una parola impronunciabile, parte di un immaginario inimmaginabile, una condizione che faceva fatica solo a figurarsi.
Sonja è una donna. Sonja è una prostituta. Sonja è soprattutto un angelo che sa accogliere il peccato altrui, che redime e che dispensa salvezza. Ha la faccia scaraventata nel sottosuolo, rivolta all’abisso della sua esistenza mostruosa, come la sua stanza che “somigliava un poco ad una rimessa e aveva la forma di un quadrilatero irregolare, cosa che le dava un aspetto mostruoso” (p. 245). È Raskòlnikov a definirla così, proprio lui che ha una stanza che è un buco dal fetore di topo, che può afferrare la maniglia della porta senza neppure prendersi il disturbo di alzarsi dallo squallido giaciglio che gli fa da letto. La felicità la incontrano entrambi nell’istante in cui le loro dita si intrecciano. E l’una sa di avere l’altro. E il cuore dell’uno si nutre del cuore dell’altro.
Si strazia Raskòlnikov arrovellandosi nella colpa e, nel suo percorso di tormento, appare Sonja come luce nel buio soffocante che lo opprime, soffio d’aria nel soffocamento provocato dal macigno del tormento fino ad essere, infine, compagna che allevia il peso della penitenza. In quel teatro infernale di umanità degradata che è San Pietroburgo – con il suo carnevale di personaggi condannati ciascuno a un crudele destino – Sonja emerge nella sua purezza, prende il peccatore per mano guidandolo sulla via della redenzione.
Se si potesse fare di un romanzo un’esperienza visiva, le sequenze narrative diverrebbero dipinti ad olio esposti in una galleria e la vita di questi personaggi pulserebbe non tra le parole, ma nelle sfumature di colore, nelle ombre, nelle luci, nei drappi dei loro abiti logori, nei bagliori di lucida vernice sui loro volti pallidi e smunti. Ogni dipinto mostrerebbe la scena nel preciso momento in cui c’è un dolore nel petto che si scioglie, in cui avviene un incastro, in cui la mente non è più offuscata da un delirio ma tutto si chiarisce, come aurora che libera il cielo dal buio della notte. Se la storia d’amore tra Raskòlnikov e Sonja fosse un percorso visivo, si varcherebbe la soglia di una sala in penombra e quattro dipinti raffigurerebbero gli istanti in cui Sonja si introduce gradualmente nella vita di Raskòlnikov, con la grazia di una dolce luce mattutina che brilla sul mare e si espande come oro tra le sue onde.
Visione.
“ (…) i suoi occhi celesti erano tanto limpidi e, quando s’animavano, davano alla sua fisionomia una espressione di tale bontà, di tale semplicità, che, senza volerlo, ci si sentiva attratti” (p. 189).
Ad attrarre nell’immediato lo sguardo, in questo primo ipotetico dipinto, sono gli occhi di Sonja. La ragazza è raffigurata seduta, rannicchiata su se stessa, su una sedia accanto a quella sulla quale siede Raskòlnikov. I suoi occhi sono di un celeste acceso, come cielo, spiccano luminosi al centro del dipinto e sono rivolti a Raskòlnikov. Un attimo prima erano bassi sulle sue ginocchia: vergognosa, aveva appena formulato un balbettante – emozionato – ringraziamento al ragazzo per aver aiutato lei, sua madre e i suoi fratelli dopo la morte del padre. Spostando lo sguardo sul viso dello studente, si noterà che, solitamente così pallido, è, invece, infiammato. Gli occhi ardenti di Raskòlnikov sono posati su Sonja e la vedono, davvero, per la prima volta. L’ha già incontrata in precedenza ma solo ora la può osservare: seduta vicino a lui, col suo corpo minuto, il volto magrolino, il mento tremante di pianto e imbarazzo, è una diciottenne che sembra una bambina. Ma sono i suoi occhi limpidi a infiammare gli occhi di Raskòlnikov. Sonja è bellissima. Non sono le sue fattezze a renderla tale (“Non la si poteva neppure chiamar bellina…” – p. 189). Fuori è violentata dalla miseria, distrutta da un destino disumano che l’ha condotta alla prostituzione per poter sopravvivere. Ma è dentro che Sonja è bellissima. Non è una figura erotica, non è desiderabile. Sonja è la strada verso una forma d’amore che è già oltre quello fisico, oltre l’attrazione, oltre il desiderio. Gli occhi di Raskòlnikov si infiammano d’un amore che lo ha turbato e allo stesso tempo gli ha già dato sollievo, come svegliarsi da un incubo – Raskòlnikov che cammina affannato tra i vicoli scuri di San Pietroburgo, si intrufola in un appartamento, vede una tenda, la scosta, dietro c’è una vecchia tutta raggomitolata su una seggiola che comincia a ridere, ridere di lui e lui la percuote sulla testa con l’accetta ma a ogni colpo le risate si fanno più stridule e sul pianerottolo c’è tanta gente che lo guarda, vorrebbe fuggire ma le sue gambe sono inchiodate al pavimento – e trovare accanto a sé una mano calda da stringere. Raskòlnikov e Sonja si amano già dal primo istante, anche senza essersi mai toccati, perché i due di incontrano in un sottosuolo comune e gli occhi azzurri di lei incontrano gli occhi ardenti di lui tra le fiamme di un inferno nel quale stanno bruciando insieme.
Vangelo.
“Non mi sono inchinato davanti a te, bensì davanti a tutta la sofferenza umana” (p. 249).
Il secondo ipotetico dipinto raffigura Raskòlnikov che, inchinato dinanzi a Sonja, le bacia i piedi. Sonja ha il busto leggermente ruotato, come se stesse cercando di scostarsi, e il volto pieno di sorpresa e di sgomento. Il ragazzo si è recato presso la “mostruosa” dimora di Sonja per dirle addio. Ha già detto addio alla madre e alla sorella, vorrebbe fuggire. Sragiona di febbre ma deve vedere Sonja, parlarle per l’ultima volta. E mentre il delirio cresce, Sonja gli domanda se ci sarà, il giorno dopo, al funerale dalla merciaia Lizavèta (la seconda donna da lui uccisa, sorella dell’usuraia). A quel punto, venendo a sapere che Sonja e Lizavèta erano amiche, Raskòlnikov impallidisce, il senso di colpa lo opprime. A prostrarlo ai piedi di Sonja è, però, la contraddizione: Sonja è una peccatrice, vive nel degrado, nell’abiezione. Ma nel suo cuore quella degradazione si mescola ai sentimenti più puri, “degni di una santa” (p. 250), sentimenti di compassione e di pietà. Allora è come se una forza superiore costringesse Raskòlnikov a inginocchiarsi dinanzi a Sonja in quanto essere sofferente. Sonja non è piegata dal proprio sacrificio, né la propria pena le suscita indifferenza nei confronti della sofferenza altrui. Non vive nell’odio nei confronti di quell’umanità che l’ha immolata ma vive, al contrario, nel perdono. Ai piedi di Sonja, cosciente del proprio peccato, ma non da esso indebolita, Raskòlnikov avverte che questa creatura può essere in grado di restituirgli la sua dignità di essere umano. Dopo questo gesto, in un impeto quasi feroce, Raskòlnikov pretende che Sonja legga per lui il passo del Vangelo in cui si narra della resurrezione di Lazzaro (è un libricino che, nel dipinto, compare posato su di un misero tavolino). Sonja glielo legge mentre, sopraffatta dalla commozione, trema violentemente. Più si avvicina al momento del miracolo, più un sovrumano entusiasmo la divora, la vista le si offusca e le righe del Vangelo le si confondono davanti agli occhi. Raggiunto il punto in cui Lazzaro risorge, Raskòlnikov le dirà di aver rotto i rapporti con la famiglia e che il giorno dopo tornerà a confessarle chi ha ucciso Lizàveta. Perché lui conosce l’artefice del delitto. Quella notte Sonja, nel delirio, sarà scossa da tremiti di febbre. Sognerà la lettura del Vangelo e Raskòlnikov, pallido e con gli occhi ardenti, che le bacia i piedi. E glieli bagna di lacrime.
Confessione.
“Alzatasi gli si gettò al collo, lo strinse fra le braccia fortemente (…)” (p. 315).
Nel terzo dipinto Sonja abbraccia Raskòlnikov. È in punta di piedi e sembra essersi scaraventata con tutto il corpo sul corpo di lui che, invece, se ne sta rigido con le braccia aperte, sorpreso da quel gesto inaspettato. Lui le ha appena rivelato l’orribile verità. È lui l’assassino di Lizàveta e di sua sorella, lo stesso uomo che il giorno prima le abbracciava le ginocchia, prostrato ai suoi piedi, con il quale leggeva il Vangelo. Ora le sta confessando di essere un mostro, un essere abominevole. Eppure, lui sa di aver ucciso per un fine superiore, sa che il mondo sarà un posto migliore senza quella spregevole usuraia, sa di aver ucciso un pidocchio,
(“- Io ho ucciso un pidocchio, null’altro, Sonja, un pidocchio inutile, disgustoso, nocivo”.
-Ma quel pidocchio era una creatura umana!”). (p. 318).
Raskòlnikov travolge Sonja con un fiume di meditazioni -fantasticherie che ha discusso tra sé e sé prima di commettere il delitto – parla che sembra un pazzo, urla, si infuria, le intima di stare zitta quando lei prova a parlare, si incendia in un delirio di onnipotenza, inneggiando all’omicidio come atto di giustizia. Ma davanti alla reazione della ragazza, tutta quella convinzione si tramuta in un’offesa alla vita, non solo alla vita – alle vite – che ha tolto ma alla sua stessa misera esistenza: Sonja lo abbraccia. Anzi gli si getta addosso, come per proteggerlo. Lo guarda nel disperato tentativo di cogliere nel suo viso un barlume di speranza e di innocenza e, rendendosi conto di non trovarlo, non fugge via inorridita ma lo avvolge con le sue braccia sottili. All’”atto d’audacia” (p. 320) di Raskòlnikov, al suo “diritto di aspirare alla potenza” (p. 320), Sonja oppone la carità cristiana. Stretto in quell’abbraccio, Raskòlnikov non si sente più un superuomo, ma un pidocchio schiacciato dalla colpa. E ad accoglierlo da pidocchio c’è Sonja. Sonja lo accoglie perché riesce a vedere oltre la sua colpa. Oltre tutto l’orrore, vede ancora quel ragazzo a cui piace “quando qualcuno canta, accompagnato dall’organetto, in una serata d’autunno, fredda, buia, umida – ma la serata deve assolutamente essere umida – e tutti i passanti hanno il viso livido, sofferente…o, meglio ancora, quando una neve molle viene giù dritta, senza vento – sapete? – e attraverso la neve brillano i lampioni a gas…” (p. 130). Sonja lo abbraccia e lo salva perché ai suoi occhi il male scompare: è come se sotto il suo sguardo limpido il male si sciogliesse come la neve ai lampioni a gas delle strade di San Pietroburgo.
Resurrezione.
“Erano tutt’e due pallidi e magri, ma in quei visi smunti e scolorati già splendeva l’aurora d’un avvenire rinnovellato, di una completa resurrezione per una nuova vita. Li aveva risuscitati l’amore (…)” (p. 411).
Nell’ultimo dipinto Raskòlnikov e Sonja si trovano esattamente come li avevamo incontrati all’inizio di questo percorso: presi per mano di fronte alla steppa siberiana inondata di sole. Raskòlnikov è stato condannato ai lavori forzati. Sonja lo ha seguito e lavora da sarta nella stessa città nella quale si trova la fortezza in cui Raskòlnikov sconterà la sua pena. Con il cuore che “gli batteva tanto forte da fargli male” (p. 410), finalmente le tiene la mano. Invaso da una felicità che non crede possibile, i sette anni che si prospettano da trascorrere chiuso in quella prigione ora gli sembrano sette giorni. Sonja è con lui, come aveva promesso. E i dolori, il delitto, la condanna, l’esilio, sfumano nel guardare il profilo di quel corpo magro che gli sta accanto, dritto nel riflesso del sole che entra dal finestrone della fortezza. Sonja e Raskòlnikov sono come rinati: “li aveva risuscitati l’amore” (p. 411). E allora il passo del Vangelo sulla resurrezione di Lazzaro – letto nel momento più cupo, quello dello sprofondamento, della fossa, del buco, del buio, del dolore, della tortura – si rivela profetico: per chiunque esiste una resurrezione. Per i due protagonisti di Delitto e Castigo il miracolo è rappresentato dall’amore.
I colori di un cielo chiaro, della neve bianca che riflette il sole, illuminano quest’ultimo dipinto. Sono i colori di una vita rinnovata, di un’occasione di redenzione per un uomo che conoscerà una nuova realtà. Di perdono, di amore verso se stesso e verso gli altri. La vita di Raskòlnikov non è finita, volge verso il futuro, verso altri inverni il cui freddo non gli fa più paura. Perché Sonja gli tiene la mano.
“Potrebbe essere il tema di un futuro racconto, ma il nostro racconto di oggi è terminato”. (p. 412). (Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, Newton Compton, 1994).