di Antonio Stanca
Ad Aprile di quest’anno nella “Universale Economica” della Feltrinelli è comparsa la nona edizione di ¡Viva la vida!, un breve volume di Pino Cacucci che risale al 2010 e che contiene un lungo, immaginario monologo della famosa pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954) dove dice di lei, della sua vita, dalla nascita alla morte. Concludono l’opera altre notizie relative alla Kahlo e aggiunte dall’autore affinché completa risulti la sua conoscenza.
È un’operazione abbastanza riuscita ed ancora una volta Cacucci, giornalista, scrittore, traduttore e infaticabile viaggiatore, conferma le sue doti.
È nato ad Alessandria nel 1955 e in molte direzioni si è impegnato fin dagli inizi. Anche dei film sono stati tratti da suoi lavori. Tra questi la ricerca, la scoperta, la ricostruzione dei dati biografici di famosi personaggi del passato è uno dei prevalenti. Amante, sembra Cacucci, di sapere come sono vissuti, cosa hanno fatto, quale è stata la vita privata, segreta, sentimentale di quei personaggi. Così per Frida Kahlo in ¡Viva la vida! Stavolta, però, ha immaginato che sia il personaggio stesso a narrarsi, a rievocare quanto gli è successo, a pensare di parlare, discutere con le persone che hanno fatto parte della sua vita. Una solitaria scena teatrale, una lunga recita è il libro, un’opera che coinvolge fin dall’inizio, che appassiona poiché costituita da un solo discorso e da tutto quanto di un discorso, atteggiamenti, sguardi, movimenti, interruzioni, pause, riprese, può far parte.
Un successo è stato quando, nel 2009, il regista Giorgio Gallione ha diretto Chiara Muti che recitava quel monologo al Teatro di Lerici. È carico di una tale tensione, è così vicino all’animo, allo spirito di chi parla, è tanto capace di cogliere le verità estreme da non lasciare indifferente nessun lettore o spettatore.
Una vita tormentata è stata quella di Frida Kahlo.
È nata a Coyoacán, Città del Messico, nel 1907 e qui è morta nel 1954. Aveva quarantasette anni e da quando ne aveva diciotto, a causa di un gravissimo incidente avvenuto tra i mezzi di trasporto che usava per tornare a casa, era rimasta gravemente limitata nei movimenti e bisognosa di continue cure. Aveva riportato lesioni alla colonna vertebrale, agli organi interni, alle gambe ed era stata costretta a vivere per moltissimo tempo a letto aiutata da strumenti ortopedici e farmaci di ogni tipo. Qui aveva cominciato a dipingere. Aveva dipinto sé stessa, con autoritratti aveva cominciato, della sua condizione fisica e mentale, dei dolori del suo corpo e della sua anima, della sua desolazione aveva voluto dire nei quadri. E il genere del ritratto sarebbe rimasto il suo preferito anche quando si sarebbe liberata dallo stato di fermo e sarebbe tornata a stare in piedi, a camminare. Avrebbe ripreso a credere nella vita, acceso, furioso era il suo amore per la vita, avrebbe sperato nel futuro, si sarebbe sentita vitale, piena di qualità. Molto nota sarebbe diventata, sempre più ricca sarebbe stata la sua produzione pittorica. Anche paesaggi, usi, costumi, ambienti, volti del vecchio Messico vi sarebbero rientrati. Da pittrice avrebbe teso a recuperare il passato, la storia, la tradizione del suo paese, a rivalutarle, apprezzarle perché migliori del presente sempre più compromesso e corrotto.
Anche l’amore, la sensualità sarebbero arrivati, avrebbe fatto le sue esperienze: nel 1929 si sarebbe sposata col celebre pittore messicano Diego Rivera. Avrebbero condiviso tutto compresi gli ideali politici di estrema sinistra ma poi ne sarebbero stati delusi e li avrebbero abbandonati. Rimasto sarebbe, però, in loro lo spirito primo, l’aspetto eroico, anarchico di quegli ideali, quello che aveva alimentato la leggendaria rivoluzione messicana del 1910, che aveva mosso tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, contro un governo che negava i loro diritti, che li teneva nella povertà. Di quel memorabile evento la Kahlo e il Rivera si consideravano gli eredi, gli unici eredi visto che col tempo anche i suoi effetti erano quasi svaniti. Vivevano di accese passioni, di grandi aspirazioni, della fiducia nella vita, della forza dell’animo, del fervore dell’arte. Un’altra delusione, però, e stavolta solo per lei farà finire questo idillio. Rivera la tradiva, l’aveva sempre fatto ed infine lo aveva fatto anche con Cristina, la bella sorella di Frida. Un dramma il suo, un dramma che si era prolungato, che era diventato il motivo, il tema della sua pittura. Molta altra ne farà, sue opere saranno presenti in molte collezioni private e pubbliche, messicane e straniere. Segni, simboli del suo dolore diventeranno nel mondo i suoi ritratti, le loro espressioni, i suoi personaggi, le loro forme, i suoi paesaggi, le loro luci, i loro colori.
Morirà a quarantasette anni, breve era stato il suo percorso ma intenso, carico di situazioni, avvenimenti spesso avversi, contrari. Non vi si era arresa e neanche alla malattia si era arresa. L’aveva accettata, condivisa. L’aveva vista come il suo modo di essere e non doveva impedirle di fare altro. E tanto altro, molto altro ha fatto se si pensa che ha iniziato come una ragazza malata ed è finita come una donna famosa in ogni parte del mondo.
Aveva una forza la Kahlo, quella dell’arte, e niente era riuscito a fermarla!
Modo migliore dell’immaginarla mentre declama la sua sorte non poteva esserci!