La nuova guerra civile nella Repubblica Centraficana (perché è più di quanto sembra)

Nicolò Errico

Foto di copertina: Goran Tomasevic – Reuters

Un bambino si rivolge a soldati francesi dopo la repressione di una protesta a Bambari, Repubblica Centrafricana.

Nella tormentata Repubblica Centrafricana si è riacceso il conflitto civile che da anni compromette il fragile futuro di una terra povera, devastata dalla guerra e dalle dittature militari – degno di nota è sicuramente l’eccentrico regime sanguinario di Jean-Bedel Bokassa (1966-1979).

La CAR (Central African Republic) è un paese giovane (l’età media è di 17,6 anni su una popolazione di 5,9 milioni di abitanti) ed estremamente sottosviluppato. E’ privo di sbocchi sul mare, 2/3 del territorio sono contesi con le varie milizie ribelli ed è per di più circondato da altri Stati instabili (Ciad, Sudan, Sudan del Sud, Repubblica Democratica del Congo). E’ il penultimo paese al mondo per HDI – lo Human Development Index, che include i più importanti indicatori socio-economici.

Jean-Bedel Bokassa

L’aspettativa di vita media è di 53,3 anni, l’alfabetizzazione è al 34%, mentre mancano dati importanti, come quelli sull’accesso all’acqua potabile. Tuttavia, le risorse diamantifere, il legname, la posizione geografica e le più vaste strategie di Paesi forti hanno messo la CAR al centro di particolari attenzioni internazionali.
Ex colonia francese, la vita politica della CAR è stata, ed è tuttora, influenzata dalla Francia, la quale non ha esitato ad instaurare e smantellare dittature e regimi (tra cui appunto quello di Bokassa) a seconda delle proprie esigenze nazionali.
Nel paese si contano inoltre numerose forze straniere, molte delle quali sono presenti sotto l’egida ONU. A seguito dello scoppio della guerra civile che tuttora grava sulla CAR, le Nazioni Unite hanno istituito la missione MINUSCA, che nel 2016 ha contato ben 10.000 effettivi in loco.

Al di là delle forze internazionali e della Francia, il governo della CAR gode dell’assistenza economica e militare, attraverso accordi bilaterali. In particolare, la Cina ha dimostrato grande attenzione per la Repubblica Centrafricana, in linea con la propria politica di espansione verso l’Africa.
Dal 2000 infatti, la Repubblica Popolare Cinese ha aumentato vertiginosamente i propri investimenti diretti esteri (i cosiddetti OFDIOverseas Foreign Direct Investments) in tutto il continente. La strategia ha combinato ingenti OFDI in settori strategici (telecomunicazioni, trasporti, minerali, petrolio, porti, etc.) con prestiti a basso interesse ed occasionali cancellazione dei debiti.
Oltre alla Cina, anche Russia e Ruanda hanno sostenuto fortemente il governo della CAR.
L’interventismo del vicino Ruanda, guidata dal presidente Paul Kagame, non deve sorprendere.  Il paese infatti, dopo aver ritrovato la stabilità a seguito del genocidio del 1994, è diventato uno dei principali promotori della stabilità continentale.

Grazie alla presenza e alla pronta mobilitazione di questi attori internazionali, la CAR è riuscita a reggere nonostante le gravi violenze esplose il mese scorso.

François Bozizé

In occasione delle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2020, una coalizione di forze ribelli ha avviato un’imponente serie di attacchi contro il governo centrale e le forze internazionali. L’offensiva avrebbe dovuto interrompere il processo elettorale, da cui è stato escluso l’ex presidente della CAR, il generale François Bozizé.
Bozizé, salito al potere con un golpe nel 2003, è stato l’indiscusso padrone del paese fino al marzo 2013, quando fugge all’estero in seguito all’esplosione della guerra civile guidata dal gruppo di ribelli noti come ‘Seleka’. I Seleka sostituiscono Bozizé con Michel Djotodia, battuto poi alle elezioni del 30 dicembre 2015 da Faustin-Archange Touadéra.
Nonostante il programma di riconciliazione nazionale, Touadéra non è riuscito a spegnere le tensioni nel paese e nel 2019 Bozizé è potuto tornare nel paese, sebbene escluso dalla corsa elettorale visti i processi legati alle violenze del 2013 a suo carico.
Il governo centrale ha accusato proprio l’ex generale di aver organizzato l’offensiva ribelle che il 18 dicembre 2020 ha raggiunto la periferia di Bangui, la capitale della CAR.
Bambari, la quarta città più grande del paese, è caduta nelle mani dei ribelli il 23 dicembre. Le forze internazionali dell’ONU l’hanno riconquistata il giorno seguente, mentre centinaia di soldati e paramilitari russi e ruandesi erano stati inviati a sostegno del governo centrale in tutta fretta.
Nel clima di tensioni, Toudéra è stato nuovamente eletto presidente, con il 53,9% dei voti. L’opposizione che chiede l’annullamento del risultato. Gli scontri sono tuttora in corso, con i ribelli che, a fasi alterne, riescono a mettere in scacco la capitale.


E’ difficile credere che la CAR si stabilizzerà nel medio termine. I ribelli continuano a sferrare i loro attacchi fin dentro la capitale, decine di migliaia di persone hanno abbandonato le proprie case e altre migliaia il paese.

Nel grafico si può notare l’aumento degli OFDI cinesi in Africa di contro alla drastica riduzione di quelli statunitensi. Fonte: Johns Hopkins University  

Quello che però coglie l’attenzione degli osservatori è la grande mobilitazione internazionale in un paese apparentemente irrilevante sul piano geopolitico. Apparentemente, perché in realtà la CAR è diventata il teatro di una minacciosa competizione internazionale che potrebbe tanto stabilizzare quanto trasportare lo stato in una spirale di violenza. L’Africa, ed in particolare quella orientale, è entrata innegabilmente nelle mire espansionistiche di Russia e Cina. 
Nel 2017 infatti la Cina ha inaugurato la sua prima base militare all’estero proprio in Djibouti, una nazione che ospita già diverse basi militari estere di Stati Uniti, Italia, Giappone, etc. Ma difficilmente l’Esercito Cinese vorrà fermarsi a questo piccolo traguardo.
La costruzione di porti commerciali e centri di sorveglianza avio-marittima in paesi come Tanzania e Maldive lasciano intendere che la Cina voglia sfidare la supremazia marittima americana e allo stesso tempo mettere in sicurezza l’Oceano Indiano per ospitare la Nuova Via della Seta.
La Russia – rivale storico della Cina – ha incrementato notevolmente la propria presenza sul continente africano, appaltando la sicurezza e le operazioni militari ai mercenari della compagnia russa Wagner, diventata ormai il braccio armato di Putin nelle proxy-wars. La Wagner infatti assiste tuttora Haftar, il Mozambico, il Sudan e tanti altri attori statali e non, estendendo ulteriormente l’influenza russa nel continente.
Non è un caso che a novembre 2020 il premier russo Mikhail Mishustin abbia annunciato la creazione di una base militare a Port Sudan, nella regione del Sudan affacciata sul Mar Rosso.
Il neo-eletto presidente statunitense J. Biden dovrà necessariamente scegliere come comportarsi di fronte al crescente appetito dei due avversari – e di altri emergenti come la Turchia. La nuova presidenza potrà proseguire sulla via del disimpegno internazionale, come ha voluto fare Trump – che ha ad esempio deciso il ritiro di gran parte del contingente americano stanziato in Somalia dopo quasi trent’anni di infruttuosa missione -, oppure ingaggiare le altre potenze in una intensa lotta diplomatica e politica. Per farlo, gli USA dovranno necessariamente costituire un blocco di alleati con cui condurre l’iniziativa – che dovrà includere i paesi della regione -, e soprattutto non dovranno trattenersi dall’impiegare le proprie forze militari per occupare punti strategici.
La novità rispetto ai vecchi schemi della guerra fredda in Africa è la presenza di attori regionali nuovi, intraprendenti – come il Ruanda e l’Etiopia – ed ovviamente l’implicazione di nuove tecnologie – 5G, satelliti, sistemi di riconoscimento – con cui tutti gli attori dovranno fare i conti.
E’ troppo presto per rilevare gli effetti di questa competizione sul continente africano.
Ma se da una parte il conflitto potrebbe obbligare gli attori coinvolti a sviluppare tecnologie ed infrastrutture per sostenere la sfida internazionale – anche grazie a capitali e know-how forniti dall’estero agli stati africani, per stabilire e consolidare alleanze -, dall’altra la crescente influenza di potenze non democratiche potrebbe compromettere il tortuoso cammino per la costruzione dello stato di diritto in Africa.