Francesco Petrella
Ma se qualcuno di essi, [i bruti infelici], potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl’impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi.
G. Leopardi, Zibaldone 814
Leopardi lo adopero necessariamente, lo fisso come punteruolo per il mio discorso. Mi accingo a commentare Drunk Tank Pink, secondo album degli inglesi Shame, e devo irrimediabilmente allontanarlo dall’alveo della scena post-punk per non arenarmi in acque fin troppo mosse. Premetto una breve nota biografica: il disco prende forma dalle spinte seguite a un periodo di isolamento che il gruppo s’è auto-imposto, dopo un alienante tour nel 2018. In un riposo quasi panico tra le colline dei borghi londinesi, gli Shame, imbracciati nuovamente i ferini strumenti, hanno dato forma musicale al dissolversi di un mondo e alla sua ricostruzione, al rapporto con la morte e allo sguardo sul riconosciuto vuoto della vita.
Vuoto vado a intenderlo come l’abisso, le gouffre di Baudelaire che “[…] è tutto: l’atto e il desiderio,/ il sogno e la parola”. Lo spiego, questo vuoto della vita, semplificandolo di molto, come il raggiungimento dell’apice, del picco, o anche ciò che s’accompagna all’abbandono, alla perdita di se stessi. È l’attimo, impossibile da vivere o da dire, di cui la vita è anticamera e attesa eppure esso accade nel corso vitale, si apre totalitario dinanzi all’uomo che non può cercarvi riparo e che ne viene inviluppato. Drunk Tank Pink, [come altri, non troppi, dischi precedenti], è interamente permeato dal racconto di questo affaccio sul vuoto anzi, più che permeato i testi dimostrano un’ossessione straziante nei confronti di questa perdita momentanea di sé stessi. Le tracce del disco rinnovano di continuo un panico incontrollato. Born in Luton è la prima prova chiara di questa paura: “I’ve been waiting outside for all of my life/And now I’ve got to the door there’s no one inside”, canta Charlie Steen. Eccolo qui, il momento della disillusione, dopo la lunga attesa, con la coscienza che l’attesa deve ricrearsi e tornare, infatti subito dopo urla con voce cigolante: “When are you coming back?/When arе you coming home?”. Tutto il disco è giocato sull’attesa, le interrogative si susseguono nella quasi totalità dei brani, waiting è verbo costante che torna con la stessa simmetria con cui tornano i lampioni autostradali, tutti alla medesima distanza, ed entrambi, i lampioni e il waiting, illuminano il percorso.
In questa distensione temporale, rintracciabile in tutta l’opera, sta anche a complicare il discorso un rapporto costante con il tempo della vita e quindi, della morte. Quando la morte mostra il profilo, il racconto degli Shame si intensifica, raggiunge abissi musicalmente formidabili, [vd. Snow Day, Station Wagon, deliranti chitarre apocalittiche à la Slint, batteria funebre marciante, vocalmente vicini alla carta vetrata], e si muove in un razionalissimo bipolarismo, tra un ripudio impaurito e un’ineluttabile accettazione. Movimento banalmente umano che gli Shame rigiocano, inaspettato, sul campo del dialogo/scontro con la Natura.
L’evidenza di questo processo sta tutta in Water in the well, dove acqua è un qualcosa circondato da temibili verbi, [indugia, uccide], l’unico posto privilegiato, ma non sicuro, è la hill, la collina che diviene pulpito, palco dove Steen intesse il suo dialogo con questa cattiva Madre, ch’altro non è che un riflesso di quella paura di morire, che forse anche ingenuamente, diviene colpa da addossare alla Natura. Il dialogo poi [si concluderà in Station Wagon dove torneranno la collina e la Natura] si manifesterà più esplicitamente, e tutto verrà condotto al parossismo, quasi che Steen voglia infrangersi o rifrangersi nel fulmine ultimo, nella sparizione più che nella morte. In tutto questo racconto, l’universo musicale che gli Shame hanno costruito, che viva nella drammaticità delle tonalità basse o nella pungente comicità dei sostenuti ritmi byrne-iani, è l’eremo di vetro, fittizio, innalzato come barriera e scappatoia dalla temibile Madre inaffrontabile. Col progredire delle tracce dell’album, si capisce come questo fragile eremo si sia infranto lasciando nient’altro che l’affaccio sul vuoto e una solitudine straziante. A dirla diversamente, la musica, il tour, l’inseguimento del sogno hanno tanto sovraccaricato la band da portarla al blackout e portarla verso l’auto-isolamento, [all’interno di un isolamento istituzionale dato dalla pandemia, da qui il senso di quel “double-locked” in Born in Luton].
Chiudo, così come si chiude il disco, con Station Wagon che è la tentata riappacificazione con la Natura: il racconto urlato da Steen si accartoccia, riavvolge su se stesso in ultimo confronto dell’uomo sulla collina con la Natura nella sua veste celeste. La richiesta di una nuvola, da sformare, modellare e riporre in tasca, è come una richiesta di controllare la Natura, il Tempo, la Morte e dunque, la Vita. È cancellare l’attesa, venire a patti con la Natura, rendendola testimone di un patto che l’uomo stringe con la nuvola, che altro non è che l’evanescente speranza di controllo ma anche la fiducia nella razionalità, [non è la nuvola il simbolo fumettistico del pensiero?], da cui dovrebbe arrivare la pace.
Questo è il grande racconto sotteso a Drunk Tank Pink, una storia che racconta dell’interminabile lotta tra l’uomo e la Natura, tra l’individuo insignificante e la Vita/Morte e il raggiungimento di un patto con l’Abisso, per cercare di eliminare se stessi, andare oltre la meschina individualità dell’esistenza e poter guardare allo sterminato orizzonte delle relazioni che necessariamente intrecciamo e che creano la rete che dà un significato. Significato non alla vita ma quantomeno all’attesa della morte, che non conosciamo e del resto, non ci riguarda.