di Ruben Alfieri
Il mio nome è Daniel Arzola, ho appena compiuto trent’anni, sono venezuelano e sono Artivista. La mia tecnica di illustrazione è in digitale e nel 2013 ho creato NoSoyTuChiste: una serie di affissioni, illustrazioni accompagnate da frasi che avevo già usato in passato per difendermi o per farmi valere. Nel 2014 sono uscito dal Venezuela come gli altri tre milioni e passa di venezuelani che sono fuggiti da un processo che ci perseguita, che ci castiga e che sistematicamente viola i diritti umani. Dopo aver passato un periodo ad Amsterdam, lavorando per RNW radio Netherlands, sono tornato in Latino America, a Buenos Aires. Dopo un anno sono riuscito a ottenere un posto di lavoro a Santiago del Chile, nella municipalidad de providencia, nel departamento de la diversidad y no discriminación. Qui ho lavorato a contatto con le popolazioni indigene, LGBT ed emigranti, creando anche campagne e immagini di sensibilizzazione. Una volta terminato il progetto ho ottenuto i documenti necessari per rimanere in Chile, anche se non lavoro tanto a Santiago quanto presenziando in conferenze in cui mi invitano per parlare della mia teoria di Artivismo, per cui mi baso soprattutto sulla mia prima esperienza, NoSoyTuChiste (NonSonoIlTuoScherzo). Attualmente il progetto è tradotto in 20 lingue.
Il mio lavoro è la mia conversazione, il mio messaggio, il dialogo che ho con l’altro – da venezuelano, sopravvivere a un alto livello di omofobia. Da bambino e adolescente ero accusato di essere omosessuale al punto che i miei vicini scrivevano il mio nome sui muri del quartiere con graffiti omofobici, o di chiamare anonimamente a casa. La mia infanzia si divide in tre città: Maracay, dove sono nato; Choroní e Turmero. In questa città, tra i 13 e i 17 anni, sono accaduti gli episodi peggiori. Spesso venivo attaccato e mi capitava che mi spegnessero mozziconi di sigaretta sul corpo. In quel periodo ho cominciato coi miei disegni, e ho iniziato a prendermi sul serio con l’arte digitale 6 anni fa, dopo che ho saputo che un ragazzo della mia città venne bruciato vivo per essere gay. Ho capito che quel che mi succedeva era sistematico e che non era semplicemente sfortuna.
Cosa significa fare Artivismo?
Artivismo è usare l’arte come strumento di incidenza sociale – incidere nella cultura rappresentando personaggi e storie che di solito non sono rappresentati in modo umano. Rappresentare quindi personaggi che solitamente sono incastrati in stereotipi. Utilizzare un discorso grafico per vincolarlo con un messaggio per me può completare l’opera a livello artistico. L’arte per me è una conversazione che cerca di trascendere. Scelgo di rappresentare questi personaggi perché credo che quando possiamo sentirci riconosciuti nella cultura la nostra identità si sviluppa anziché frammentarsi. Quando cresciamo senza poter identificarci nei libri, nelle canzoni o in un murale… quando ci accorgiamo che non si parla di noi nella cultura in genere, la nostra identità si frammenta. Quindi io faccio e insegno Artivismo. Per quanto riguarda il metodo, è una sfida alla vulnerabilità dell’arte. L’arte può essere distrutta molto facilmente… Quando ad esempio facevo disegno tradizionale, i miei disegni spesso venivano strappati da chi mi era intorno…
Esponevi in strada?
Li portavo con me… A Turmero ero perseguitato anche dai vicini di casa, giovani e adulti. Ciò che hai creato in settimane, o a volte mesi, può essere distrutto in un minuto. È questa la fragilità dell’arte, no? Però l’arte può sopravvivere a questo attacco e si può preservare dalla sua fragilità presentandola in un formato che non si può distruggere facilmente. Questo è il mio secondo pensiero di fare Artivismo, che la mia opera non possa essere distrutta con facilità. Per questo uso arte digitale, perché lo spirito dell’opera è indistruttibile. Anche se il suo formato può essere distrutto, l’opera può essere rimpiazzata.
Come esponi quindi il tuo lavoro?
Il mio lavoro comincia prima di tutto in camera mia. Quando ho creato NoSoyTuChiste, che si è poi trasformato nel lavoro che mi ha cambiato e salvato la vita, ho cominciato il progetto su un computer difettoso mentre ero ancora in Venezuela. I miei primi lavori li ho pubblicati su internet, attraverso i social networks, e dopo che sono diventati virali ho avuto l’occasione di presentarli in altri paesi. C’è un’esposizione permanente nella metro di Buenos Aires, Estación Carlos Jáuregui, che si può definire la prima stazione metro LGBT in America Latina. Ho avuto l’occasione di fare campagna nella metro di New York; ho disegnato murales a Montevideo, in Uruguay. Da poco ho fatto campagna su alcuni autobus in Francia, a Tours. Ho anche esposto in strada, pubblicato su edifici in cui mi è stato concesso di disegnare. Però tutto è nato come una sorta di movimento virtuale…
Lavori in gruppo adesso, o da solo?
Lavoro da solo. Posso dire di lavorare in gruppo quando prendo accordi per gli spazi in cui pubblicare, ma nell’atto creativo faccio da me.
Mai disegnato su un muro illegalmente?
Preferisco integrare piuttosto che impormi. Normalmente gli spazi per disegnare me li offrono, ma per quel che riguarda il lavoro callejero posso disegnare su una parete per riqualificarla, ad esempio, non per danneggiare il patrimonio o cose simili…
Perché l’arte è una chiave per comprendere “il diverso”? Non pensi che l’arte dovrebbe rappresentare la realtà da un altro punto di vista che quello sociale?
Perché la creazione artistica suppone un tipo di comunicazione diversa che non è precisamente attraverso la conoscenza tipica. La creazione artistica implica una risposta di fascinazione per l’altro. Precisamente l’arte ci connette attraverso una fascinazione per l’essere umano; ci risveglia una sensazione di ammirazione verso un tema. Quando siamo di fronte a un’opera d’arte non ci ritroviamo a essere giudicati da parte sua. L’opera è tutta lì, di fronte a noi. È un lavoro interno, una conversazione con se stessi e con ciò che l’opera può farti sentire. L’attivismo convenzionale si appella alla ragione di una persona, mentre l’Artivismo si appella alle sue emozioni. Non devi capire qualcosa per sentirlo, stai rappresentando una realtà emotiva. Cambia il canale di conversazione.
Quali sono stati i convegni e gli eventi a cui ti hanno invitato finora e cosa ti chiedono, di solito, come funzionano, cosa senti di spiegare?
Principalmente mi invitano a partecipare a convegni universitari. La prima volta, ricordo, mi chiesero di parlare di NoSoyTuChiste, in versione inglese – quella volta: I’mNotaJoke. Quindi quando mi invitano a parlare di questo progetto, che è il mio progetto principale, vogliono sapere della mia teoria di Artivismo, soprattutto, e dell’arte come esperienza di formazione sociale; dell’arte come rappresentativa delle realtà proibite e censurate nel proprio paese. Nel caso del Venezuela, il mio lavoro si è evoluto nella prima campagna LGBT a diventare virale. Prima di NoSoyTuChiste non c’era un’espressione culturale che mostrasse la diversità sessuale in un modo positivo; se ne era sempre parlato in modo scherzoso e burlesco, attraverso i mezzi di comunicazione comuni. Quando mi invitano a charlas e convegni, quindi, mi invitano a parlare del processo artistico e personale che mi ha spinto verso il progetto. Finora ho partecipato a conferenze nell’ Amherst College (Massachussets), nella Northwestern University (Illinois), nella Towson University (Maryland), nella University of Alberta (Canada), nell’ Universidad Nacional Autónoma de México e nell’ Universidad Simón Bolívar (Caracas).
Come pensi che il pubblico si confronti alla tua forma d’arte e perché questo modo di esporla?
Dipende sempre dal pubblico, no? Io so da dove parte ciò che comunico ma non so precisamente in che modo l’altro mi stia percependo. So da dove creo ma non so da dove l’altro mi vede. Posso dire però che grazie all’appoggio del pubblico, grazie alla percezione che generalmente la gente vede nel mio lavoro, la mia vita è cambiata completamente. Per un artista poter vivere della propria opera penso che sia il miglior privilegio che possa raggiungere in vita; per dire che riuscire a pagarmi l’affitto col mio lavoro penso che sia il massimo. Mi considero un operaio dell’arte. Se non disegno o se non sto lavorando completamente e coscientemente non posso arrivare a fine mese e pagarmi l’affitto, o come si dice di solito “llevar el pan a la mesa”. La percezione dell’altro sul mio lavoro, mi ha fatto ripercorrere moltissimi luoghi per il mondo. Mi ricordo che la prima volta che ho preso l’aereo fu a 23 anni ed è stato grazie al mio lavoro. Sono stato l’unica persona nella mia famiglia a prendere l’aereo e a uscire dal mio paese, ad esempio… Quindi questo è grazie alle persone che pensano che il mio lavoro è giusto che stia esposto in luoghi pubblici o essere mostrato comunque in alcuni posti o occasioni in particolare; o che comunque pensa che il concetto del mio lavoro debba essere condiviso nelle università, ad esempio… Quindi proprio grazie a quest’accoglienza il mio lavoro ha potuto continuare a essere diffuso, no? Dall’altro lato, invece, ci sono ancora persone che insistono nel vandalizzarlo e distruggerlo. Questo ha a che vedere con la sua parte funzionale. Se io provo a comunicare agli altri che esiste un altro tipo di persona e che nonostante venga identificato generalmente come diverso ha il diritto di esistere, e occupiamo un posto tanto nella storia come in strada e nella cultura, e questo dà fastidio a qualcuno, normalmente dà fastidio alle persone che sono abituate a disprezzarci e limitarci a “spazi” e ghetti. Quindi ho avuto tanto appoggio da chi continua a far sì che il mio lavoro sia condiviso da più persone, come disprezzo da chi tenta di distruggerlo. Fortunatamente sono più i primi che i secondi. Fortunatamente sono di più le persone che condividono che quelle che distruggono.
Quanto è importante quindi per un artista esistere nella propria società o pensi che egli dovrebbe seguire comunque il suo percorso individuale, nonostante l’ambiente sociale che lo circonda?
Penso che dipenda da come ogni persona desideri relazionarsi, ovvero, io penso che perché la tua opera sia onesta deve essere una risposta alla tua formazione, alla tua realtà, alla tua epoca e cultura. Perché quando un artista affronta la creazione di un’opera, che sia letteraria, grafica o plastica, si confronta sempre con una domanda, e l’opera rappresenta la sua risposta. Se non sei capace di porti delle domande verso ciò che ti circonda, se il tuo quartiere, la tua società, il tuo paese, non ti generano domande e non ti causano una risposta, non penso che l’opera possa avere costanza o materia per stabilire l’arte per ciò che è – che è una conversazione con l’altro nonostante il tempo. Penso quindi che sia importante che l’artista come individuo possa rispondere alla società in cui vive.
Influenze. Un artista del passato che pensi sia più vicino alla tua forma d’arte.
Keith Haring. Mi piace per come è riuscito a trasmettere messaggi potenti attraverso una grafica semplice; del modo in cui è riuscito a parlare di temi sociali attraverso l’arte che la gente in un certo senso “consumava”. È stato un artista abbastanza mainstream negli anni ’80 degli Stati Uniti e si permise di trattare l’esperienza di vivere con l’AIDS durante quell’epoca… Ricordo che quando ero bambino avevo dei vicini che erano pittori e spesso gettavano nell’immondizia dei cataloghi d’arte che poi raccoglievo. Quando tra questi trovai qualcosa su Keith Haring, pensai “Wow, anche questo è arte… Non deve essere un quadro che sembri antico o “oscuro”… Può anche essere allegro e vibrante, con dei colori vivi e delle caratteristiche semplici, e nonostante questo può contenere un messaggio ed essere trasmesso”. Questo mi aiutò poi a darmi la consapevolezza che quello che stavo facendo col tempo poteva trasformarsi in arte… Credo però che la cosa più importante che mi ha insegnato è Lo stile; ossia, che bisogna avere una voce propria nel mondo artistico per poter dire qualcosa – e questo riguarda la parte grafica. Parlando di letteratura, anche scoprire l’opera di Federico García Lorca ha avuto molta influenza su di me. Conoscere la Spagna pre-franchista attraverso la sua poesia rivela un mondo magico e potente. Ritrovare la mia omosessualità nella sua poesia, riflessa nella sua epoca, mi ha fatto avere visioni brutali, che mi fecero sentire che facevo parte di qualcosa, che è esistita gente tremendamente talentuosa in realtà tremendamente oppressive, creando cose meravigliose attraverso le loro opere. Questo mi ha insegnato Lorca tanto quanto Haring.
Parlando invece della tua formazione?
Per quanto riguarda l’università, non ho avuto l’opportunità di frequentarla. In Venezuela ci sono università private così come pubbliche, ma si concentrano nella capitale, e io vivevo a Maracay, a una o due ore in auto da Caracas. La situazione del paese ti dava da scegliere solo tra il lavoro e la sopravvivenza oppure lo studio a spese dei tuoi genitori. Non potevo permettermi la seconda opzione perché lavoravo già da quando avevo tredici anni per mantenere me e mia madre. Ho studiato disegno grafico in un istituto molto povero, dove, mi permetto di dire, non ho imparato molto. La scuola d’arte era cadente, non c’era nemmeno acqua… El subdirector, che era anche un insegnante, preferiva usare le ore di lezione per parlare di teorie cospirative, tipo che Gesù Cristo, Simón Bolívar e Chávez erano extraterrestri venuti in terra per rivoluzionarci. Le sue lezioni andavano così. Ma avevo un ottimo professore – e penso che avere un buon professore possa cambiarti per sempre – che mi disse che secondo lui potevo disegnare realistico, perché allora facevo solo disegni in stile manga; Edgar Longart. Così cominciai a disegnare ritratti e altro di genere realistico sotto il suo consiglio; e un altro mio buon professore, Aquiles Ortiz, mi insegnò storia e critica dell’arte, y era una máquina. Nel contesto scolastico, che era sempre molto caotico, ho incontrato qualche professore che prendeva il suo lavoro molto sul serio e io li ho sfruttati per imparare più che potevo.
Come svilupperesti il tuo format nel futuro e dove ti vedresti? Torneresti un giorno in Venezuela?
Sai, non lo so… Tutto cambia… Posso rispondere per ciò che vivo in questo momento e quel che sento è che la ferità rimane ancora aperta. Non tornerei al momento al mio paese, perché è ancora sotto sequestro. Nel caso però che cadesse la dittatura mi piacerebbe collaborare almeno nella costruzione della cultura in Venezuela. Mi piacerebbe fare nel mio paese ciò che ho fatto in altri paesi… Questo sì, mi piacerebbe. Per quel che riguarda tornare definitivamente, non lo so… Il posto che ho lasciato non sarebbe più lo stesso. È quel che succede agli emigranti, no? La terra che ho lasciato già non è più la stessa e una volta tornato non so se potrei ancora riconoscermi in essa.
Per quanto riguarda il mio futuro, non ne ho idea. Cercare di vivere della mia opera è un po’ come stare sulle montagne russe… Da quando sono uscito dal mio paese cerco di vivere per obbiettivi. Il primo, ricordo, è stato cercare di riavere la mia famiglia. Così, da quando sono in Chile, una volta ottenuti dei documenti che mi riconoscessero come residente, ho lottato per riaverla qui e ci sono riuscito. Negli ultimi cinque anni è stata l’unica cosa a cui ho pensato, e da quando ci siamo tutti, oltre a sviluppare il mio lavoro, ho pensato di dover trovare un posto che mi facesse sentire pianamente a mio agio, visto che attualmente mi trovo in Chile per convenienza. Sento di non poter rimanere a diffondere il mio lavoro solo in questo paese, ma di viaggiare e sperimentare altrove. Il mio pensiero al futuro va alla ricerca di un posto in cui voglio realmente restare.
Ti consideri un artista venezuelano, alla fine?
Claro, más venezolano que las arepas![1] Il mio accento è venezuelano, le mie abitudini lo sono…
Quanto è importante quindi la tua nazionalità come persona e artista?
In questo momento essere venezuelano è molto difficile, perché alla mia generazione è toccato vivere l’emigrazione più grande che il nostro paese abbia mai visto… La più cruda… Non so onestamente quali parole usare per descrivere questo fenomeno. Quando dico che è stata “grande” voglio dire che è stata terribile; che più di tre milioni di persone devono lasciare la propria casa perché sono oppresse da un sistema che qualcuno ancora nel mondo elogia. È duro sopravvivere a un massacro del genere e nonostante questo arrivare dall’altra parte del confine e sentirti dire che la persona che ti ha calpestato per tutto questo tempo è il buono, mentre tu sei il cattivo. È duro essere venezuelano di questi tempi perché non tutti vogliono ascoltare quel che hai da dire, perché molti sono offuscati da un pensiero prettamente politico, che romanzano la politica e vivono ancora intrappolati tra i due binari di sinistra e di destra, e anziché chiederti a cosa sei sopravvissuto ti chiedono per chi voti. Essere venezuelano in questo momento quindi è complicato, e per me è molto importante ricordare agli altri da dove vengo, perché prima di lasciare il Venezuela avevo 24 anni e mi avevano puntato la pistola alla testa già cinque volte. Dovevo fare ore di fila per comprare cibo da niente; sono stato sottomesso da militari e poliziotti che mi consideravano inferiore per la mia sessualità e l’identità che difendevo. Vengo fuori da una serie di eventi che hanno visto dei miei amici catturati e torturati per essere usciti in strada a protestare; che hanno ucciso i miei familiari, che tuttora costringono le persone a mangiare una volta al giorno perché altrimenti non potrebbero sopravvivere. È impossibile che tutto questo, anche dopo esserne venuto fuori, non diventi parte di te. Quello che voglio dire è che da quando sono uscito dal paese i venezuelani emigrati sono passati da 3 a 5 milioni. Ogni volta che danno un’occhiata al numero di venezuelani scappati dal paese, l’incremento della cifra è brutale. Per farti un esempio, quando arrivai in Chile c’erano più o meno 18.000 venezuelani a Santiago e adesso siamo più di 300.000. La diaspora venezuelana cresce in modo esponenziale… Quindi, quando ti ritrovi numeri del genere in fuga dal proprio paese per lo stesso motivo, quello che succede in Venezuela non è più un’opinione ma un fatto, una realtà. Per questo per me è importante dirlo.
La nostra intervista verrà pubblicata nel numero nove della rivista Clinamen, intitolata “La metamorfosi”. Questo tema ha qualche correlazione con la tua arte e il tuo pensiero sociale, secondo te?
Io stesso mi considero una persona che ha subito una metamorfosi. È importante potersi trasformare. Credo che cambiare è una qualità che non abbiamo tutti – la capacità di cambiare. Non tutti ci apriamo al cambiamento… e alla possibilità di riscoprirsi; perché per cambiare devi prima cercarti dentro e analizzarti, e ci sono persone che non reggono lo sforzo. Però, in effetti, anche graficamente, simbolicamente, il tema del cambiamento è presente nella mia opera – come nella farfalla, che mi capita spesso di disegnare, o comunque in esseri con una certa fragilità, perché il cambiamento può anche essere molto fragile. Nel processo in cui ci trasformiamo, penso che tendiamo a essere molto vulnerabili.
[1] Le arepas sono focaccine tipiche della cucina venezuelana.