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Lorenzo Olivieri
“Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto da un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere.”
(Nanni Moretti, Caro Diario)
Caro diario, sì, questa è stata un’estate strana, per tutti, non solo per me, ma credo di essere stato fortunato. Il mio vagabondare per le isole greche – complice un lavoro ad Atene – mi ha portato in giro per tutto il mare Egeo. Ho capito anche qualcosa in più dell’animo greco, che fino allora mi era sfuggito. Il primo viaggio è stato ad Agistri, scoglio roccioso a solo un’ora da Atene. Il porto del Pireo era pieno di gente, e ho fatto fatica a riconoscere il mio gruppo di amici. Laura, previdente, aveva in mano un pacco di dolcetti che nonostante il breve viaggio avrebbe sfamato sia noi che un gruppo di gabbiani che furbescamente non smetteva di seguirci. La bagnarola era piccola, ma in un’ora di viaggio siamo riusciti a cambiare di posto almeno 4 volte. Alice voleva andare sul tetto, dove il cielo era di un blu che non avevo mai visto prima e il mare placido ci faceva sentire ancora più piccoli, ma i gabbiani, all’inizio animali affascinanti erano ora diventati pericolosi cecchini. Alla fine, eravamo finiti all’interno, seduti vicino ad un gruppo di vecchi greci che bevevano vino bianco e discutevano di Europa e di trojka.
Lo sbarco è stato tragico (nel senso originale e antico del termine): i poliziotti greci, con ancora il caffè e la deliziosa loukoumade ancora smangiucchiata in mano, ci schedavano prendendo i nostri nomi e i nostri numeri di telefono. I facchini scaricavano le casse con le lettere per gli isolani e il comandante urlava ordini al megafono e faceva scaricare i camion arrugginiti dal mare. Ad Agistri non c’è nulla, come dicevo, è uno scoglio. La natura selvaggia è avvolgente e il mare che ti circonda – almeno per me, abitante delle montagne – in tutti i lati lascia strane impressioni. Camminiamo sotto il sole, accarezziamo i gatti e beviamo le birre che si riscaldano subito. Non riesco nemmeno a finire la mia – non che prima fosse eccezionale – che ormai ha lo stesso sapore del sudore che mi inonda la schiena. La rappresentanza polacca del mio gruppo, in Grecia ormai da tanto, decide di guidarci alla spiaggia segreta, dall’altro lato dell’isola. Per quaranta minuti camminiamo nel bosco, e penso che assomigli a quei percorsi nei miei monti lontani della Laga. Mentre camminiamo incontriamo altri campeggiatori, che ci salutano come fossimo i loro vicini da casa. Per raggiungere la spiaggia segreta, bisogna scalare uno strapiombo. Giulia dice che no, non ce l’avrebbe mai fatta. Io non lo dico, ma lo penso. Alla fine, ci riusciamo e la fatica ne vale la pena. La spiaggia rocciosa, le tende sparse e colorate, il mare blu e verde e i vecchi nudi. Chi lo diceva che con l’età si diventa più pudici?
Decidiamo di rimanere per la notte sulla spiaggia, perché il caldo era ancora tanto ed eravamo comunque organizzati per dormire lì. Quando fa buio, si vedono le luci lontane dell’isola più grande di fronte, Aegina. Qualche timido motoscafo passa lontano dalla costa e lascia una luce gialla che si fa sempre più piccola. Più si fa buio e più riusciamo a vedere la Via Lattea. Non mi ricordo come si chiami in inglese, e solo il francese capisce il mio “the galactic way” e guarda verso l’alto. Decidiamo di fare un’altra sortita in città prima della chiusura per comprare un’altra bottiglia di vino in qualche taverna. Io e Kevin scaliamo di nuovo lo strapiombo al buio, ci perdiamo qualche volta nella foresta e finalmente troviamo la nostra taverna, piena di gente. Il cameriere ci fa provare tre tipi di vino e alla fine scegliamo un rosso dolce, rimanendone affascinati. Ce lo versa in una bottiglia di plastica e, pagato, torniamo al nostro accampamento. Il vino, lassù era più buono, ma le chiacchiere scorrono meglio con quel bicchiere in mano e ci raccontiamo storie lontane, sia nei tempi che nei luoghi. La notte è fredda e più volte mi pento di non aver portato qualcosa di più pesante. L’alba ci coglie infreddoliti e di sorpresa. Siamo distrutti ed acciaccati, ma non potremmo essere più felici, il sole e il mare verde e blu e un altro traghetto che ci avrebbe portato a casa in qualche ora.
Dopo alcune settimane, tornato dall’Italia, dopo qualche giorno sarei finito invece a Naxos. Isola stavolta molto più lontana, quasi vicino la Turchia. Questa volta, saliamo a bordo del traghetto che è ancora buio e ci addormentiamo quasi subito su posti non destinati a noi. Mi risveglio quando la guardia va a svegliare uno dei miei compagni di bordo. Facendo finta di nulla prendo le mie cose e me ne vado. Troverò un altro posto sul balcone esterno e nonostante gli spruzzi d’acqua mi riaddormento quasi subito. Sull’isola ci aspettano altri italiani, che sono già lì da qualche giorno. La città di Naxos è quello che ti aspetteresti da un’isola greca: le case bianche blu, le navi al porto e il mezzo milione di tassisti che ti porterebbero anche sull’Olimpo. Il porto brulica di turisti, e ci perdiamo per le viuzze bianche. Ad ogni angolo cercano di convincerti ad affittare un’auto.
Ci fermiamo a mangiare il solito gyros e vedo già i miei amici – tedeschi e finlandesi – scottati dal sole. Sento parlare italiano ma non sono gli italiani che ci aspettavano, ma sono comunque diretti al nostro stesso campeggio. Scrocchiamo un passaggio e troviamo gli altri. Il campeggio è in mezzo al nulla, ma il tramonto sulla spiaggia bianca è fantastico e il cielo stellato è sopra di noi. Il mio amico mi dice: “Ma ti immagini vivere in un’isola? La mattina ti svegli e cammini sulla sabbia bagnata”. Il tempio di Dionisio è su quest’isola e decidiamo di andare a piedi a vederlo. Ci ricordiamo poi che abbiamo dormito due ore, che non mangiamo decentemente da parecchio e che avevamo passato la notte a ballare sulla spiaggia. Vediamo le rovine del tempio da lontano, convinti che Dionisio avrebbe approvato. Il viaggio di ritorno, sull’immenso traghetto, è lentissimo e capisco perché i greci lo preferiscono all’aereo. Le famiglie si conoscono, i vecchi cacciano l’immancabile tavli e iniziano a lanciare i dadi, qualcuno tira fuori una bottiglietta di tsipouro, la grappa greca allungata con l’acqua e la offre ai vicini. In un mondo che corre sempre, forse quelle cinque ore di navigazione sulle acque placide sono la giusta medicina per mettere in pausa il tempo. Mi ricordo che un amico greco disse che per i greci il viaggio in traghetto era già parte della vacanza e non lo avrebbero mai scambiato con l’aereo. Spero che questa sorta di tradizione non finisca mai.
L’ultima isola che visito è Hydra, in un viaggio organizzato solo la notte prima. Non ne so niente di quest’isola, e quando arrivo mi mancano le parole per descriverla. A posteriori, direi che è come se Gubbio fosse un’isola. Le case medioevali di pietra si affacciano sul porto e sui bastioni lontani si vedono i cannoni ora innocui, i vecchi in piazza bevono lenti il caffè e c’è un solo poliziotto annoiato. Mi aspetto da un momento all’altro di vedere Don Matteo arrivare sulla sua bicicletta. Ma Hydra non solo non ha auto, ma non ci sono nemmeno le strade. Non che ce n’è fosse bisogno: il villaggio è piccolissimo e l’unico posto da visitare è il monastero di Sant’Elia, sul picco della montagna. Le tre spiagge più famose sono facilmente raggiungibili da un percorso che costeggia la spiaggia e che a vola si perde nella campagna secca dell’agosto greco. Ci fermiamo nella prima, per reidratarsi non c’è niente di meglio di mezzo litro di vino bianco. Ricominciamo verso la prossima spiaggia, attraversando chiese minuscole e case abbandonate. L’ultima spiaggia è anche la più bella. Ci fermiamo, facendo colazione con nutella e altro vino. Gli unici mezzi di locomozione qui sono gli asini, e quindi la città è piena di asini stracarichi di valigie di turisti. Sono circa le tre e la città sembra fantasma, a parte qualche gatto affamato che si gode il sole. Le poche case e le vecchie che pettegolano davanti, qualche pope con la barba bianca e l’alienante mancanza del rumore della auto: Hydra sembra essersi fermata a sessant’anni fa. Tutte le case sembrano mangiate dalla salsedine. Mangiamo kalamaraki in una taverna vuota, in cui siamo gli unici avventori. Il servizio era stato terribile e i kalamaraki non sapevano di nulla, ma la piazza che si animava mentre le luci si accendevano valevano da soli il prezzo del biglietto. Come ogni volta, il lavoro ci richiama in terraferma e ancora una volta mi imbarco in un piccolo traghetto, guardando mentre l’isola si allontana sempre di più, lasciandomi sempre l’interrogativo di come si possa vivere per sempre in un’isola.