Racconto

COME ACQUA TRA LE DITA

di Enrico Molle

Juanito aveva solo sedici anni e troppe storiacce sulla pelle. Girava per le strade del suo quartiere a Miami con lo sguardo fisso a terra e le labbra serrate. Non parlava con nessuno Juanito, non voleva guai. Camminava e non pensava, perché pensare faceva troppo male, non portava a nulla. Il suo fuoco era debole, latente, dimenticato e sommerso da fantasmi e sogni lontani.
Non aveva mai conosciuto suo padre Juanito, ma a volte ne immaginava le fattezze poiché lui, mulatto, guardava la madre Lina, una donna minuta dalla pelle scurissima, e ci vedeva ben poco di riflesso. Un amore fugace lo aveva fatto nascere.
Molto tempo prima, in un sobborgo dell’Avana, Lina con i suoi quattro fratelli e le sue due sorelle cercava di tirare avanti in tutti i modi. Vendeva sigari, rum o acquavite, pagati poco e rivenduti al triplo ai turisti, allevava galline o colombi, si dava da fare e non si prostituiva come molte ragazze della sua città. Un giorno però era arrivato un bellissimo uomo bianco, Roberto, un portoghese in vacanza che si era innamorato di Lina e le aveva promesso di portarla in Europa. Subito il fratello maggiore, Juan, l’aveva messa in guardia.
«Stai lontana dai bianchi!» le diceva «Si prendono quest’infezione d’amore negro e non ci capiscono più nulla, sono cotti. Ma poi guariscono e ti lasciano con le tasche vuote e il cuore spezzato in mille pezzi!».
Ma Lina non lo aveva ascoltato e sognava già di passare le sue giornate in una bella casa in Portogallo, di uscire a fare la spesa mentre il marito lavorava e faceva tantissimi soldi. Lei avrebbe cresciuto i loro bellissimi bambini, con la pelle dorata, frutto di un mix tra i due colori più forti al mondo, il bianco e il nero. In tre settimane Lina aveva fatto da guida a Roberto, lo aveva portato nei posti più belli e nei locali più costosi dell’Avana, dove lui pagava sempre per lei. Facevano l’amore in albergo quatto o cinque volte al giorno, poi uscivano e andavano a bere fino a tarda notte, per poi ritornare in albergo e fare l’amore di nuovo.
Così Lina era rimasta incinta e quando Roberto era partito per l’Europa, con la promessa di tornare a prenderla, lei nemmeno lo sapeva.
«Lina, i tuoi piccoli seni da uomo stanno finalmente diventando due belle tette da donna!» le disse la madre Maria dopo che Roberto era andato via da poche settimane, confessandole di fatto che era incinta. Ma lui non sarebbe mai più tornato e Lina, a soli ventuno anni, si ritrovava con un bambino in grembo da crescere senza padre.
Le sue due sorelle, più grandi di lei, Juliana e Raquel avevano già tre figli. Juliana era sposata con Pedro, che lavorava come portinaio in un hotel dell’Avana e aveva due bambini di otto e quattro anni. Raquel, dopo essere rimasta incinta di Julio, aveva da poco avuto la piccola Marta. Lui era un tuttofare del quartiere che stentava a essere presente nella crescita della bambina, scomparendo per giorni interi, forse esibendosi in qualche spettacolo erotico per turisti, salvo poi ricomparire con qualche soldo da lasciare a Raquel e alla figlia.
I quattro fratelli di Lina, ad eccezione di Luis, il più piccolo di tutti, avevano figli sparsi per tutta l’Avana, quindi il nuovo arrivato non sarebbe cresciuto solo, sarebbe stato accolto in quella grande famiglia dove l’amore riempiva la pancia più dei poveri pasti.
Ma Lina si sentiva ancora giovane, o meglio Lina era ancora giovane, un ragazzina di ventuno anni che dall’altra parte del mondo forse sarebbe stata una studentessa coccolata e tutelata, ma che a Cuba doveva inventarsi qualcosa da vendere per poter mangiare e che aspettava un bambino. Ormai sapeva che non avrebbe mai più rivisto Roberto, ma cercava di tenere ancora vivo il suo sogno. Ogni tanto chiudeva gli occhi e si immaginava su lenzuola bianche e profumate, in una camera con vista mare, mentre si coccolava con il suo uomo, ansiosa di accogliere il loro bambino.
Ma quando nacque Juanito, Lina viveva ancora in una terrazza di un palazzo dell’Avana, dalla quale si poteva vedere il Malecón e dove spesso, al tramonto, soffiava una brezza marina salata e appiccicosa. Il suo sogno cominciava a svanire e per questo Lina iniziò a incupirsi, diventando più taciturna, più apatica. Dopo un anno e mezzo dalla nascita del figlio iniziò a prostituirsi, passando le giornate bevendo e mangiando con il turista di turno pieno di soldi, molto più vecchio di lei e alla quale cercava di spillare quanto più denaro possibile.
Nonna Maria cresceva il piccolo Juanito, sostituendosi di fatto alla madre. Ma la vecchia Maria, all’età di ottantatré anni, proprio quando Juanito ne aveva da poco compiuti cinque, morì stroncata da un ictus.
Lina era sempre meno presente nella vita del figlio, che soffrì la morte della nonna a cui era molto affezionato e che, già taciturno, iniziò a stare in silenzio per giornate intere.
Nel frattempo Juan si era trasferito a Miami dove lavorava come lavapiatti e, dopo appena un anno, preoccupato per le condizioni del nipote, sempre più introverso, aveva consigliato alla sorella di trasferirsi da lui per crescere Juanito in un posto migliore. Così le aveva trovato un lavoro in un gelateria e aveva ospitato lei e il figlioletto a casa sua. Erano i primi anni novanta, quelli dell’esodo, nei quali la scappava da Cuba preferendo la prigione americana al regime di Fidel, che riversava in gravi condizioni di miseria dopo il crollo del muro di Berlino e il tramonto dell’Unione Sovietica che ne sosteneva l’economia commerciale. Il viaggio non fu affatto facile, ma a Lina e a Juanito era toccata comunque una sorte migliore di molti altri cubani. Avevano viaggiato per un paio di giorni su un barchetta stracolma di persone, ma quantomeno più sicura delle zattere di fortuna che molte persone costruivano e che spesso finivano per affondare lasciando i malcapitati in balia delle onde e degli squali.
Juan, oltre a fare il lavapiatti, per tirare avanti e mandare un po’ di soldi a casa spacciava. Si era fatto strada nella malavita locale e questo gli aveva permesso di far entrare la sorella e il nipote senza problemi in America. Nondimeno, alcuni anni dopo, questo lo aveva portato alla morte quando un affare di droga non era andato a buon fine e, per un regolamento di conti, Juan si era beccato una pallottola nel cranio prima di essere gettato in pasto ai pescecani.
Quando lo zio morì, Juanito aveva dodici anni. Era rimasto solo con la madre Lina che lavorava ininterrottamente dalla mattina alla sera, ma che non riusciva a sostenere tutte le spese per via della sua tossicodipendenza ormai evidente. All’Avana Lina fumava marjuana di bassa qualità, acquistabile a prezzi bassi, ma una volta a Miami era passata al crack che era molto più costoso. Ciononostante, per i primi due anni dopo la morte del fratello, si era presa cura del figlio e lo aveva mandato a scuola. Ma quando il ragazzo aveva compiuto quattordici anni, la madre era ormai lacerata e smagrita dalla droga. Per questo motivo Juanito, dopo la scuola, lavorava come fattorino delle pizze visto che Lina cambiava lavoro ogni due settimane e non riusciva mai a rimanere nello stesso posto.
Il proprietario della pizzeria si chiamava Joseph, un omaccione dai modi burberi di origini italiane e irlandesi, nato ad Atlanta e trasferitosi poi a Miami. Nonostante il suo caratteraccio, aveva preso a cuore quel ragazzino mulatto, magro e di poche parole. Juanito, a modo suo, si era affezionato a Joseph e ogni volta che l’uomo vedeva le partite di calcio della nazionale italiana, poiché si sentiva completamente italiano e per niente americano o irlandese, il ragazzo gli si sedeva accanto e tifava per gli azzurri, pur non avendo nulla di italiano. Fu così che Juanito si appassionò prima a Roberto Baggio, che aveva lo stesso nome di suo padre, poi a Del Piero, a Vieri e a Totti. La notte, quando tornava dal lavoro, prima di addormentarsi, sognava di diventare un grande calciatore, di poter portare la sua famiglia in tribuna e poter esultare per un gol ai mondiali da dedicare alla madre, allo zio Juan e a nonna Maria.
A scuola Juanito non aveva molta voglia di socializzare con gli altri e ancor meno ne aveva di studiare. Sfortunatamente Lina, di tanto in tanto, continuava a prostituirsi per avere i soldi per comprare il crack e qualche ragazzaccio, che andava in classe insieme al figlio, era passato da lei un paio di volte, motivo per cui Juanito era deriso.
Per questo motivo lui camminava con lo sguardo fisso a terra e le labbra serrate. Non voleva vedere nessuno, non voleva parlare con nessuno. Juanito non sapeva cosa voleva, Juanito non sapeva nulla.
Non si soffermava mai a riflettere sulla propria vita, era troppo doloroso, troppo faticoso, semplicemente viveva giorno dopo giorno, aspettando un’occasione, aspettando che le cose cambiassero. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, magari ci avrebbe messo un po’, ma sarebbe arrivato e Juanito sarebbe finalmente uscito da quella vita fatta di stenti e squallore.
Una sera il giovane ragazzo tornò a casa dopo il lavoro e trovò la madre seduta sul divanetto che avevano nel piccolo soggiorno al piano terra del loro misero appartamento in affitto. Lina si era addormentata in una coltre di fumo. Dall’odore doveva aver fumato marjuana, così il figlio la afferrò per portarla a letto.
«Oh Juanito mio!» disse Lina «Stavo sognando… oh com’era bello col suo abito bianco, la sua camicia azzurra… oh com’era bello!».
«Chi mamma? Chi era?».
«Tuo padre, Roberto! Oh com’era bello con quel suo vestito, con i suoi occhi neri e penetranti… ti somiglia lo sai? Avete gli stessi occhi scuri tu e lui, neri come la pece, ma che nella notte scura luccicano come perle».
«Avanti mamma, andiamo a dormire. Domani devi andare a lavoro!».
«Era proprio bello il mio Roberto, era un angelo. Facevamo l’amore, sapeva farmi sentire viva. Mi manca tanto Juanito, mi manca molto!».
Il ragazzo non rispose e portò la madre a letto. Dopo andò in camera sua e si stese, pancia in su, a fissare il soffitto. Lui non ci capiva molto dell’amore. Certo, gli piacevano le ragazze, ma non ne aveva mai toccata una. Ne aveva viste alcune su quelle riviste erotiche che rubava a Joseph, gli piacevano molto, ma ancora non aveva mai avuto l’occasione di baciarne una, di accarezzarne la pelle e di sentirne il suo odore.
Doveva essere bello, pensava Jauanito, poter sentire il sapore delle labbra di una donna, e nel frattempo sognava di sposare un giorno la sua compagna Isabel, la più bella della classe, una giovane ragazza americana dalla pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli biondi. A Juanito piaceva da impazzire Isabel, ma non le aveva mai rivolto una parola. Eppure, in quel momento, come sua madre aveva fatto con Roberto molti anni prima, sognava di sposarla e di avere dei bambini con lei, di abitare in una casa di fronte al mare ed essere felice. Lo desiderava così tanto che quel pensiero per un attimo era quasi diventato realtà e Juanito si sentiva colmo di gioia. Si addormentò così, sicuro che quel giorno sarebbe arrivato e che tutto quel male che aveva visto nonostante la giovane età, sarebbe scivolato via in un istante, come acqua tra le dita.
Juanito sapeva solo una cosa, Juanito sapeva che il mondo spesso rovina le cose e per questo, talvolta, il sogno di una notte vale più di una vita intera.