di Alfonso Martino
Tra i registi italiani più apprezzati all’estero degli ultimi anni non si può non menzionare Luca Guadagnino, autore dall’estetica riconoscibile, come dimostrano i suoi Call me by Your Name, Suspiria e la serie per HBO We are who We are.
Dopo il trionfo al Festival del cinema di Venezia, esce in sala Bones and All, tratto dal romanzo di Camille DeAngelis. Il film è ambientato negli USA ma la produzione è curata dalla italiana The Apartment.
Un road movie…al sangue
Maren (Taylor Russell) è una 18enne che passa da una città all’altra degli Stati Uniti. Il motivo? Presto detto: la ragazza è una cannibale, come dimostra la sequenza iniziale in cui la ragazza va a dormire a casa di una sua amica e non riesce a trattenere i suoi istinti.
La scena riprende l’atmosfera di Suspiria, con il regista che mostra la violenza dell’atto — la scena vi rimarrà impressa per molto tempo — senza esaltare il sangue o la violenza, puntando sulla necessità di Maren di nutrirsi.
Abbandonata dal padre, la ragazza inizierà un viaggio alla ricerca di sé stessa e di sua madre, accompagnata da un mangianastri e una cassetta in cui è riportata la sua infanzia.
Guadagnino racconta gli emarginati
Guadagnino utilizza i cannibali della DeAngelis per parlare degli emarginati dalla società, i quali vivono on the road, di espedienti e alla giornata.
Questa è la vita che fa Maren prima di conoscere Lee (Timothee Chalamet), ragazzo cannibale che, al contrario della protagonista, scappa dalla sua famiglia e non crea legami.
I due creeranno un forte rapporto ed entreranno in contatto con loro simili che vivono la loro natura in maniera diversa, come Sully (Mark Rylance), personaggio che non riesce a controllare la sua sete di sangue e che sembra uscito da un film di Lynch.
Un amore viscerale
Il van blu e i paesaggi sterminati di stati come l’Iowa e il Minnesota contribuiscono alla crescita di Maren e Lee, con il regista che mostra la natura incontaminata in cui si perdono i due giovani, concentrandosi su paesaggi urbani solo in punti centrali del racconto, come l’ospedale psichiatrico in cui si trova la madre di Maren.
La scena è tra le migliori del film, in cui la madre è ripresa da Guadagnino in un angolo della stanza per tutto il tempo, con occhi spiritati, i medicinali che non le permettono di parlare e le braccia mozzate, simbolo di un totale abbandono alle sue pulsioni.
Guadagnino sfida lo spettatore sia per le scene di cannibalismo, sia per il finale, dando l’illusione di chiudere la vicenda in una maniera precisa. La sequenza finale potrebbe essere meno didascalica, ma è visivamente d’impatto ed esplicativa del rapporto viscerale tra Maren e Lee, due emarginati che trovano loro stessi e l’amore.