Lorenzo Plini
Le ultime elezioni politiche americane e il loro risalto mediatico hanno dimostrato ancora una volta l’importanza che esse assumono a livello globale. Per settimane gli occhi del mondo – compresi quelli dell’Italia – sono rimasti puntati sui territori d’oltreoceano, intenti a seguire con attenzione lo sviluppo di elezioni che, grazie ai contendenti e alla situazione sanitaria nota, sono state uniche nel loro genere. Inviati, dirette televisive, dibattiti ma anche prime notizie ai telegiornali, così le elezioni americane hanno conteso al Covid-19 l’attenzione di milioni di italiani, che hanno visto anche alcuni politici nostrani schierarsi apertamente o meno per uno dei contendenti. Tutta questa attenzione, che si rinnova ogni quattro anni, ci pone di fronte anche a molte differenze fra il sistema politico statunitense e quelli del vecchio continente, soprattutto riguardo ai partiti politici. Non sarà sfuggito, infatti, che negli Usa ci sono due grandi partiti – Democratico e Repubblicano – che monopolizzano la vita politica americana da quasi due secoli, e pochissimi altri che si spartiscono le briciole in termini elettorali; ma non è stato sempre così.
All’alba della nazione americana c’erano il Partito Federalista, fondato nel 1789 da Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Usa; e il Partito Democratico-Repubblicano, fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison, rispettivamente terzo e quarto presidente degli Stati Uniti. Le differenze fra i due partiti si esprimevano sia dal punto di vista ideologico – conservatori, federalisti e filo-inglesi i primi; liberali, repubblicani e populisti i secondi – sia dal punto di vista della politica estera. Il Partito Federalista riuscì a far eleggere un solo presidente, John Adams, prima di scomparire dal panorama politico americano intorno al 1820. Più colorita, invece, la storia del Partito Democratico-Repubblicano, costellato da tutta una serie di correnti interne, antesignane di quelle che possiamo vedere nella politica odierna. Queste divisioni in seno al partito raggiunsero il culmine nel 1824, anno della scissione: una fazione, capeggiata da Andrew Jackson, fondò il Partito Democratico; un’altra il Partito Whig che nel 1854 divenne il Partito Repubblicano. Per i successivi due secoli, attraversando tutte le tappe più importanti della storia statunitense, essi si contesero l’inquilino della Casa Bianca, con la bilancia che ad oggi propende di non molto verso i Repubblicani.
Un altro elemento, che di certo non sarà sfuggito, riguarda i simboli dei due partiti. Come ogni partito che si rispetti, anche quelli statunitensi hanno un simbolo, un immagine immediatamente identificabile e unica, che permette di associarla a qualcosa, e che dimostra tutta la sua utilità soprattutto durante una campagna elettorale. Non delle lettere, né degli scudi, né dei fiori o degli alberi, bensì un asinello e un elefante. Anche se i due partiti si divisero, un filo sottile li accomuna riguardo alla nascita dei due simboli. Questo filo prende il nome di Thomas Nast.
Nato nel 1840 a Laudau, nella Germania non ancora riunificata, ben presto la famiglia emigrò nel nuovo continente, divenendo uno dei tanti tasselli del melting pot statunitense. In quel flusso migratorio, che si spostò dall’Europa all’America, capitava di imbattersi in talenti che non potevano non sbocciare fra le tante possibilità che offrivano gli Stati Uniti. Thomas Nast fu uno di questi, illustratore e vignettista, è considerato ancora oggi il padre del fumetto americano. Giovanissimo entrò a lavorare come disegnatore per l’Harper’s Weekly, una rivista politica nata in quegli anni a New York. Proprio su quelle pagine venne disegnato per la prima volta l’asinello in un cartoon: era il 1870, e Nast lo usò per rappresentare una fazione anti-militarista dei democratici con cui era entrato in disaccordo.
Il simbolo catturò subito la fantasia del pubblico e lui continuò ad usarlo per indicare il mondo del Partito Democratico. Il disegno di Nast, a sua insaputa, si inseriva in una tradizione che aveva già attribuito l’asinello come mascotte di quel partito. Era il 1828 quando, durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, gli oppositori del democratico Andrew Jackson lo definirono asino a causa delle sue posizioni giudicate populiste. Jackson non si offese, bensì usò quella campagna denigratoria contro i suoi stessi oppositori, stampando quell’animale su tutti i suoi manifesti elettorali. Il simbolo gli portò fortuna perché divenne il settimo presidente degli Stati Uniti. Anche se l’asinello non è il simbolo ufficiale del Partito Democratico, esso si presta a facili ironie soprattutto da parte dei rivali Repubblicani, che lo definiscono (oltre all’animale anche il partito) cocciuto, stupido e ridicolo; mentre i Democratici stigmatizzano affermando che esso rappresenta l’anima umile e coraggiosa del partito. Quattro anni dopo la nascita dell’asinello, sempre sulle pagine dell’Harper’s Weekly vide la luce l’elefante, in un clima politico in fermento a causa della prospettiva di un terzo mandato del presidente in carica Ulysses Grant. In quel caso, Thomas Nast prese spunto da una notizia, poi rivelatasi falsa, della fuga di alcuni animali dallo zoo di New York: disegnò, quindi, una serie di bestie fra cui un grosso pachiderma in bilico sul ciglio di un burrone, e sul dorso dello stesso la scritta “il voto repubblicano”.
In quella vignetta Nast cercò di rappresentare la paura degli americani per il dispotismo che stava dimostrando il presidente Grant. L’elefante venne riproposto da Nast anche nelle successive elezioni di metà mandato, ma quella volta disegnò l’animale all’interno di una gabbia. A differenza di Jackson con l’asinello, l’elefante non portò fortuna ai Repubblicani, che persero quelle elezioni. Nonostante ciò venne adottata come mascotte, esaltandone le qualità di intelligenza e dignità.
Dobbiamo alla satira politica e alla mano di Thomas Nast la nascita dei simboli, ufficiali o meno, dei più importanti partiti politici americani. D’altronde la storia statunitense deve molto a quegli individui e ai loro discendenti che, per disperazione o solamente per trovare fortuna, attraversarono l’oceano Atlantico. Allo stesso Thomas Nast, o meglio alla sua mano, dobbiamo la creazione di un altro simbolo, che valicò i confini delle nazioni per entrare nell’immaginario collettivo: quello di Santa Claus. Prima del 1863, Babbo Natale veniva rappresentato come un uomo alto e magro; Nast, invece, disegnò sulle pagine dell’Harper’s Weekly un uomo anziano, paffuto, con la barba bianca e la pelliccia, cioè nella versione che conosciamo oggi.