di Beatrice De Santis
Vittorio Bodini nasce a Bari nel 1914 da genitori Leccesi e, infatti, dopo la prematura scomparsa del padre, si trasferisce con la madre nella città salentina. Giovane dinamico e vivace, trascorre un’adolescenza serena ma che già rivela, a partire da questi anni, i tratti di una personalità peculiare, quasi insofferente al clima troppo monotono del sud Italia. Vittorio cresce e frequenta il Liceo Palmieri di Lecce, è intelligente e ha tutte le capacità necessarie per essere uno studente modello, tuttavia vive l’esperienza scolastica malvolentieri, sospeso in un duplice limbo di fastidio e tedio. Emblematico, per inquadrare la sua indole ribelle, l’episodio in cui, dopo aver risposto al docente di latino e greco, venne espulso da tutte le scuole d’Italia: sarà il nonno Pietro Marti, autorevole in ambito giornalistico, a far evitare la grave punizione al nipote, permettendogli di recuperare l’anno, sospeso a metà, sostenendo alcune prove nel mese di settembre.
Vicino al futurismo in un primo periodo (si tratta dei cosiddetti anni futuristi 1932-33, a cui risale l’esperienza del Futurblocco leccese), se ne distacca qualche anno dopo, entrando in forte polemica con il movimento Marinettiano che lo aveva così tanto affascinato. A tal proposito, basterà ricordare un articolo, All’insegna dell’Arte-Vita, in cui è contenuta una chiara allusione alla sua breve partecipazione al futurismo: questi miti, afferma Bodini – riferendosi a quelli tipici veicolati dal movimento – «facevano leva su commessi di negozio, ferrovieri, infermieri e soprattutto studenti liceali insofferenti delle discipline scolastiche». [2]
Sempre durante questa caotica fase giovanile, si approccerà all’ermetismo per poi prendere le distanze anche da quest’ultimo, iniziando, così, a criticare l’esagerata purezza ricercata dai poeti ermetici, in contrasto con un nuovo modo di poetare che, secondo l’intellettuale, presupponeva una doverosa apertura verso la realtà quotidiana.
Ma, al di là di quelle che furono le propensioni giovanili, il tema da cui non si può prescindere nel momento in cui ci si approccia alla figura di Vittorio Bodini – e che questo articolo cerca d’indagare, seppur brevemente – riguarda il rapporto che egli ha con il Sud. Il Sud rappresenta, innanzitutto, la casa, il rifugio sicuro in cui trovare riparo e, pertanto, l’affetto che il poeta prova nei confronti dei luoghi cari è innegabile. Tuttavia, non basta: ed ecco che, d’un tratto, qualcosa nel suo animo si smuove, cambia e inizia così una nuova fase ambivalente della sua esistenza, in cui sembra non riuscire a riappacificarsi con la terra d’origine. Il poeta, infatti, condanna lo stato di torpore e di impassibilità in cui sembra essere imprigionato il Mezzogiorno, biasima la lentezza di una terra in cui non si riconosce, l’assopimento di un luogo che, per certi versi, sembra esser ubicato ai margini stessi della vitalità. Il Meridione era, all’epoca, fortemente arretrato rispetto al Nord, e questa situazione di ritardo, che si propagava verso ogni tipo di settore, rendeva evidente il divario tra le due parti d’Italia.
Scrive Vittorio Bodini: «Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un dado». In questo verso è contenuta, emblematicamente, la concezione di un Sud associato ad una condizione esistenziale.
Bodini avverte la necessità di allontanarsi da Lecce e, infatti, dopo un breve soggiorno a Roma, decide di stabilirsi a Firenze, dove vive dal 1937 al 1940 e dove consegue una laurea in filosofia.
Il soggiorno fiorentino sarà fondamentale per la formazione del poeta, che si apre verso nuove influenze e scopre la poesia Europea. Ma l’evento, senza dubbio, cruciale della sua esistenza, risale al novembre 1946, quando vince una borsa di studio di sei mesi presso l’Istituto italiano di cultura a Madrid, decidendo, in seguito, di prolungare il soggiorno e di restare in Spagna fino all’aprile del 1949. Tornato a Lecce, il poeta, ormai maturo e consapevole in ambito letterario e personale, sceglie volutamente di dedicarsi alla riscoperta dell’ambiguo Sud: a questi anni risalgono, infatti, due opere di notevole importanza, ovvero La luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna (1956). Il Sud che interessa a Bodini non è certo quello “addormentato” che aveva duramente criticato anni prima: si tratta di un nuovo modo di intendere il Meridione, un modo che si colloca a metà strada tra storia e mito, tra realtà e fantasia. Un Mezzogiorno, insomma, nuovo e suggestivo, di cui Bodini è promotore. Questa riscoperta si incentra sull’indagine di minimi particolari entro cui scorgere fattori di vigore e rinnovamento, in una rassegna che viaggia dalla storia dell’arte all’urbanistica, dalla letteratura alle tradizioni. Si tratta, più che di un recupero, di un’invenzione vera e propria:
«Ora queto Sud è mio; mio come le mie viscere; e io l’ho inventato».[3]
Dunque, seppur sia più «difficile ricavar poesia dalla vita delle regioni meridionali […] in cui proprio le più delicate vicende del sentimento ricadono come vele senza vento»[4], secondo Bodini è comunque possibile progettare un romanzo e collocare l’azione di una storia anche a Sud. In questo procedimento, un ruolo importante è svolto dall’autore stesso che, dimostrandosi vicino agli avvenimenti narrati, riuscirà a conferire «evidenza e freschezza alla narrazione». [5]
Il Sud, secondo il nostro autore, rappresenta un miscuglio di suggestioni talvolta anche contrastanti tra loro: bellezza e contraddizione che si fondono in un tutt’uno. È proprio questa caratteristica a rendere magica una terra senza dubbio difficile ma anche in grado di rinascere.
Vittorio Bodini è stato per anni, ingiustamente, ignorato dalla manualistica nazionale. Il motivo è molto semplice: il peso della sua provenienza lo ha condannato ad una damnatio memoriae immeritata. Se a questo si aggiunge anche che per anni è stato conosciuto solo come traduttore ed esperto di ispanistica, il risultato non può che essere quello di una scarsa conoscenza della sua personalità e dei suoi interessi letterari.
Infine, è opportuno citare uno degli ultimi articoli dell’autore, Lettera a Carmelo Bene sul barocco: si tratta di uno scritto risalente al 1970, ultimo anno di vita dello scrittore che morirà prematuramente a soli cinquantasei anni. Questa lettera, che rappresenta «una lectio magistralis sul tema del barocco leccese»[6], è fondamentale per intendere, ancora una volta, il legame con la terra d’origine. Qui è contenuta la definizione del barocco come grande alternativa al mondo classico, ed è questa la ragione per cui un Paese come l’Italia non sa apprezzarlo, essendo legata indissolubilmente alla tradizione classica. Il barocco è «una nuova maniera di intendere il mondo e la vita»[7] e costituisce, nonostante tutto, un valore positivo, perché permette d’indagare affondo i sintomi di un’anima tormentata e frastagliata – quella dell’uomo contemporaneo – che si riflette anche nell’architettura. Il barocco, in particolare, rivela, al di là dei movimenti repentini e dell’eccesso di immagini, un disperato senso del vuoto, un horror vacui che necessita d’essere colmato. Tutto ciò è evidente nel seguente verso, tratto da Dopo la luna, in cui Bodini interpreta il barocco come una categoria dello spirito:
«Un’aria d’oro / mite e senza fretta / s’intrattiene in quel regno / d’ingranaggi inservibili […].»[8]
Vittorio Bodini, nella sua breve vita, ci ha lasciato non solo numerosi scritti, ma anche fruttuosi pensieri da cui far scaturire riflessioni importanti. Siamo, da sempre, abituati a leggere notizie di un Sud arretrato, corrotto, malavitoso e difficile e sarebbe insensato negare ciò che ad oggi rappresenta ancora un’amara e concreta realtà dei fatti. Tuttavia, la nostra terra ci regala anche doni inestimabili: dal cibo alle tradizioni, dalla musica alla bellezza delle ‘piccole’ cose, i paesini del Sud, tra vicoli e stradine sperdute, dialetti locali, porte aperte, tavole colme, gestualità e convivialità d’ogni tipo, pur non potendo competere con la modernità di altri centri italiani, spronano a coltivare il valore dell’ospitalità, la bellezza della condivisione e, soprattutto, come ci insegna Bodini, hanno la capacità di accogliere, stringendo in un unico abbraccio rassicurante l’uomo e le sua paure, affinché nessuno possa sprofondare negli abissi dei propri vuoti.
[1] Per il titolo cfr. “Ad esempio a me piace il sud”, canzone di Rino Gaetano.
[2] Bodini, Vittorio, All’insegna dell’Arte-Vita, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», gennaio 1952.
[3] Bodini, Vittorio e Macrì, Oreste, In quella turbata trasparenza. Un epistolario 1940-1970, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2016, p. 234.
[4] Bodini, Vittorio, Un romanzo meridionale, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 agosto 1951.
[5] Bodini, Vittorio, Un libro come notizia, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 11 dicembre 1953.
[6] Bodini, Vittorio, Allargare il gioco, scritti critici 1941-1970, a cura di A. L. Giannone, Besa editrice, 2021.
[7] Bodini, Vittorio, Lettera a Carmelo Bene sul barocco, in C. Bene, L’orecchio mancante, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 138.
[8] Bodini, Vittorio, Santa Croce, in Dopo la luna, 1956.