di Pierluigi Finolezzi
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n. 6, pagg. 11-13
Fortemente osteggiata dalla classe dominante romana, la filosofia epicurea trovò terreno fertile in Campania, dove il filosofo Filodemo di Gadara fondò ad Ercolano una scuola nella villa di Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare. Qui il filosofo ebbe come discepolo Sirone, che a sua volta fu maestro di Virgilio e Orazio, e da qui si impegnò alla riabilitazione e alla diffusione in Italia dell’epicureismo, rifiutato dai Romani perché ritenuto fonte eccessiva di otium ed elemento deviante per il negotium al quale era moralmente chiamato l’optimus civis. In questo contesto si formalizzò una speculazione filosofica che faceva del binomio vita/morte il centro della propria ricerca. Tale tema era il fulcro attorno al quale vertevano tutte le filosofie ellenistiche che miravano a scoprire la via d’accesso per il raggiungimento della felicità, ma anche a indurre l’uomo a riflettere sulla caducità della vita e sull’inevitabilità della morte. Come svelano molte testimonianze archeologiche e numerosi passi letterari, la vita e la morte sono affrontate soprattutto in contesti simposiali. Furono i lirici greci dell’età arcaica, che con i propri componimenti si rivolgevano ai loro “compagni di banchetto”, a introdurre la tematica della caducità della vita nel patrimonio letterario, da cui poi attinsero gli autori greci successivi e soprattutto i Romani. È durante un banchetto che l’esuberante Trimalchione di Petronio invita i commensali a godere della vita sino ai limiti, ricordando, tuttavia, a tutti che il destino dell’uomo è quello di camminare inesorabilmente verso la morte, a prescindere da chi si è stati e da ciò che si è fatto. Da questi ambienti dove si consumavano i pasti, si intrattenevano gli ospiti e ci si scambiava opinioni con gli invitati, proviene un vasto numero di affreschi e mosaici comunemente chiamati Memento Mori per l’oggetto delle loro rappresentazioni. Il nome dato ai prodotti di quest’arte figurativa deriva dall’espressione Respice post te! Hominem te memento! (“Guarda dietro di te! Ricordati di essere un uomo”), riportata dall’autore cristiano Tertulliano (II-III secolo d.C.) secondo il quale durante le parate trionfali dei comandanti romani era solito che, lungo il tragitto, uno schiavo, cioè un uomo dalla vita più sfortunata di quella del vincitore, salisse sul carro del generale o dell’imperatore e sussurrasse al suo orecchio tale monito, rammentandogli la precarietà del suo successo, la temporaneità della sua fortuna e la fugacità della sua vita da mortale.
Molto famoso e ricco di significati allegorici, filosofici e teologici è il mosaico pompeiano “Memento Mori”, risalente al I secolo a.C. – I secolo d.C., rinvenuto nel sito archeologico campano nel 1830 e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il quadretto-mosaico (cm 47×41) appartiene alla casa I, 5, 2 di Pompei, un’abitazione con annessa bottega che nella fase finale di esistenza della città (quindi attorno al 79 d.C.) svolgeva la funzione di conceria. Nel particolare, il reperto era collocato nel triclinium estivo e secondo la maggior parte dei ricercatori riflette e affronta allegoricamente il tema della vanitas vitae, rimarcandone soprattutto la valenza sociale. Questa interpretazione è soprattutto avvallata dalla presenza della ruota, del teschio e della livella rispettivamente simboli del destino, della morte e dell’equilibrio cosmico, elementi imprescindibili in un contesto semantico che vuole porre al centro la vita umana. La ruota, con il suo eventuale movimento, sconvolgerebbe il perfetto equilibrio a cui tutti gli oggetti presenti nel quadrato imperfetto sono sottoposti e, secondo gli studiosi, sarebbe un’allegoria del cambiamento della fortuna: la fortuna è una ruota che gira e che quindi non impedirebbe al povero di diventare ricco e al ricco di cadere in rovina. Ricchezza e povertà sono simboleggiate rispettivamente a destra da uno scettro regale, simbolo di potere, attorno al quale è avvolto un prezioso vestito di porpora, e a sinistra da un bastone ligneo da mendicante sul quale è appesa una bisaccia e attorno al quale si avvolge un abito rude, tipico dei vagabondi e dei poveri. Chiudendo il cerchio attorno a questa prima analisi, si può dire che il destino dell’uomo è una continua oscillazione tra la ricchezza e la povertà, nella quale trova giustificazione l’esistenza della diversificazione sociale nel mondo e con la quale si vuole rimarcare l’importanza che la fortuna ha sulle sorti dell’essere umano. A bloccare, però, la dinamicità della ruota a sei assi vi è la morte, raffigurata attraverso il teschio. La morte cala all’improvviso e a picco sul corso della vita umana, arrestando per sempre il suo corso e annientando totalmente ogni dimensione temporale: l’uomo può, pertanto, godere interamente della sua fortuna e vivere intensamente ogni giorno, ma non deve mai dimenticare la nullità del suo essere. A destare sorpresa è la presenza delle orecchie sul teschio, che essendo composte da cartilagine dovrebbero decomporsi dopo la morte. La spiegazione più plausibile a questo aneddoto ci è fornita da Plinio il Vecchio, di cui in Campania si conosceva il nome e la sua opera enciclopedica, che nella Naturalis Historia precisa che la sede della memoria e delle richieste fatte agli dei era collocata anatomicamente dietro l’orecchio. Il teschio è poi legato ad un filo di piombo che scende dalla livella, agli estremi della quale sono appesi i manichini della ricchezza e della povertà in totale equilibrio. Il filo rappresenterebbe la vita in tutta la sua essenza e potrebbe quindi essere il filo lavorato dalle tre Parche, dispensatrici, garanti e distruttrici della vita. Non per caso poi la morte è collocata nel quadro ad un’equa distanza tra l’allegoria del ricco e quella del povero; il monito è di semplice interpretazione: ricorda, uomo, che la condizione economica avuta nel corso della tua vita, non potrà mai sottrarti dalla morte e che nulla di ciò che possiedi o non possiedi potrà venire con te oltre la porta di Dite. Nulla ha più valore quando il filo si spezza, tutto si annichilisce e persino la vita stessa perde di significato. Solo la farfalla, posta tra la ruota e il teschio, otterrebbe dei vantaggi se l’equilibrio garantito dalla livella venisse meno. Essa, allegoria dell’anima, sarebbe finalmente libera dalla prigione del corpo, dal timore della morte e dal peso dell’avido materialismo umano: Psiche sarebbe finalmente libera di volare via e di librarsi ad ali spiegate verso l’infinita bellezza del cosmo. Si conclude così la circolarità del messaggio che l’ignoto autore di questo mosaico ha voluto lasciare al suo committente, mettendo in guardia i commensali di allora e i visitatori del museo di oggi: il destino dell’uomo è vincolato dalla ruota della fortuna che può rendere l’uomo ricco o povero, ma nonostante questa estrema diversificazione la morte è sempre in agguato e nessuno può sottrarsi al suo drastico potere che azzera ogni distinzione tra gli uomini. Gli esseri umani non devono quindi eccedere e non devono affidarsi molto alla fortuna, ma vivere con moderazione e accontentarsi delle cose semplici, ricordando magari i versi conclusivi della I Satira di Orazio (vv. 106-107) est modus in rebus, sunt certi denique fines,/ quos ultra citraque nequit consistere rectum. Per concludere, bisogna almeno citare una nuova e recentissima interpretazione data a questo affascinante mosaico che, ipotizzando l’appartenenza dell’abitazione ad una famiglia cristiana di Pompei, ha voluto distaccarsi da una lettura spiccatamente epicurea, per abbracciare la tesi di un messaggio cristiano-soteriologico, nascosto tra le alfa e le omega che sembrano formare tutti gli elementi collocati nel quadrato imperfetto. Non ci mostreremo indifferenti agli sviluppi degli studi in merito e sicuramente affronteremo la questione del messaggio teologico del mosaico Memento Mori in uno dei prossimi numeri di Clinamen.