di Nicolò Errico
In tutto il mondo, il 28 ottobre 2023 centinaia di migliaia di manifestanti si sono trovati per protestare contro la risposta militare di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre, durante il quale hanno perso la vita circa 1400 israeliani. Il governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu insieme all’estrema destra, ha infatti avviato una devastante campagna di bombardamenti sulla striscia di Gaza come rappresaglia. A questa, da pochi giorni, si sono aggiunte anche operazioni di terra e anfibie, la cui entità non è ancora chiara a causa della scarsa connessione della regione col resto del mondo.
Ho partecipato a Roma al corteo organizzato dalla comunità palestinese di Roma e del Lazio, “Contro la guerra e per una giusta pace”. A differenza dei violenti scontri tra polizia e manifestanti a cui ho potuto assistere a metà ottobre a Berlino lungo la Sonnenallee, qui la marcia si è svolta senza episodi di guerriglia urbana né di disordini.
Le fotografie sono state tutte scattate dall’autore.
Queste scene, per quanto accorate, sono ben diverse dalle immagini che mi porto dagli scontri nella capitale tedesca, dove gli scontri coi reparti antisommossa sono stati intensi e gli arresti venivano effettuati continuamente.
A Roma, nel corteo che da Porta San Paolo si dirige verso Piazza San Giovanni, si conteranno a fine giornata circa ventimila partecipanti. Presenti anche alcuni personaggi della politica come Alessandro Di Battista e Luigi De Magistris. I morti palestinesi identificati dal Ministero della Salute palestinese fino a quel giorno sono quasi ottomila. Alla partenza, viene intimato eventuali partecipanti di estrema destra ed antisemiti di allontanarsi dal corteo. Un ragazzo tenta di incendiare la bandiera israeliana, ma gli stessi organizzatori glielo impediscono allontanandolo per poi spiegarci che un simile gesto non avrebbe fatto altro che avvelenare il clima della manifestazione. I giornalisti dei canali più noti vengono respinti dai manifestanti, i quali li accusano di essere complici della narrativa filo-israeliana dei governi occidentali.
Il corteo parte in ritardo per attendere l’arrivo di partecipanti da Napoli. Lungo le autostrade, sono stati fermati diversi pullman dalla polizia per controlli.
Durante la marcia, un manifestante compie un gesto eclatante, strappando e portando via la bandiera israeliana dalla sede della FAO, suscitando una forte reazione della folla.
Il corteo prosegue pacificamente, mentre i manifestanti esprimono il proprio dissenso tra cori, bandiere e cartelloni. All’altezza del Colosseo sento un paio di boati, ma il corteo rimane calmo e procede lungo il tragitto. Noto alcuni striscioni contro la fornitura di armi al regime di Kiev. Numerosi i messaggi di accusa ai leader dell’Occidente per aver appoggiato politicamente e militarmente la rappresaglia di Israele, accusato di essere uno Stato “fascista” e “terrorista”. Non sento alcuna incitazione al movimento di Hezbollah, come invece riportato dal Corriere della Sera di Roma. Anzi, viene più volte scandito che Hamas non rappresenta la Palestina né i civili palestinesi.
Più volte alcuni manifestanti si ergono tra la folla per scandire i cori e rivolgersi alle persone in marcia. Le urla e la rabbia palpabile dei manifestanti sono l’espressione di profonda preoccupazione per la causa palestinese, senza che si sfoci in disordini. Ricordando gli scontri di Berlino, mi chiedo per quanto tempo, quanti giorni, quante settimane, i governi occidentali potranno mantenere la pace interna. Quanti morti serviranno perché si rompa qualcosa. La comunità che ha organizzato questo corteo ha parenti, amici, ha un patrimonio culturale condiviso con la Palestina, con il Libano, la Cisgiordania. E vede da decenni il proprio orgoglio ferito dalle occupazioni e dalle violenze dell’IDF, le Forze di Difesa Israeliane, e dei coloni, avvallate dal governo israeliano. È una memoria viva, ora fatalmente ferita.
Arriviamo stanchi a Piazza S. Giovanni. Qui proseguono gli appelli a fermare i bombardamenti, gli accorati richiami alle numerose vittime della rappresaglia. Viene chiesto di alzare le luci dei nostri telefoni, a ribadire le presenze del corteo.
Come questo scambio a colpi di poster a Trastevere mi mostra, Roma non è univocamente dalla parte della Palestina. Non lo è neanche l’Italia, né il mondo.
Le quarantacinque astensioni – tra cui l’Italia – per la risoluzione di pace proposta all’Assemblea Generale dell’ONU dalla Giordania, con centoventi voti a favore e quattordici contrari, il pogrom avvenuto in Daghestan all’aeroporto di Makhatchakala il 29 ottobre, i numerosi arresti per le manifestazioni tenutesi in Occidente – che hanno anche visto la partecipazione delle comunità ebraiche locali come nel caso di New York – e l’aumento delle morti per mano di coloni e forze israeliane nella West Bank sono solo alcuni dei segnali di una pericolosa escalation di cui non si intravede la fine. Qualsiasi soluzione di pace sembra impossibile. Troppo l’odio, troppi i morti ora. Il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Gueterres, non ha avuto torto quando ha dichiarato, appena una settimana fa, che “È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Senza giustificare le morti civili, le stragi.
Il fallimento della diplomazia in favore delle dimostrazioni di forza viene sancito dall’avvicinamento di gruppi navali di guerra statunitensi e cinesi al Medioriente e dall’escalation di attacchi contro basi americane in Siria e contro le postazioni israeliane nel Golan – con il beneplacito dell’Iran, Siria e Russia. Nel frattempo, reduce da una difficile rielezione, il Presidente turco Erdogan ritrova il proprio innato protagonismo regionale di fronte alle folle oceaniche dei suoi sostenitori tuonando contro Israele e l’Occidente. La prudenza di Egitto e Giordania nel sostenere la popolazione palestinese, nonché il mancato attacco da nord degli Hezbollah, pongono domande sulla coesione del mondo arabo dinanzi alla questione palestinese. Domande che potrebbero ridisegnare i ruoli nella regione. Il groviglio della geopolitica e dei consensi interni sembra un gioco di bambini viziati di fronte alle migliaia di civili uccisi sotto bombardamenti indiscriminati. Una continua sovrapposizione di logiche interne su quelle internazionali. Proprio come i poster di Trastevere, strappati ed incollati l’un sull’altro con la rabbia e la frustrazione di chi si è sentito toccato da tutte queste morti.