a cura di Lorenzo Di Lauro
Intervista di rilievo è quella all’autore Vanni Schiavoni, poeta, romanziere. In venticinque anni di carriera ha racchiuso le proprie esperienze di vita (i viaggi, le radici, le esperienze esterne) per costruire una produzione poetica che ancora oggi si nutre di continui riferimenti al suo percorso. Ha anche pubblicato il romanzo Mavi e alla passione per la scrittura, affianca quella per il cinema e la musica.
Qual è stato il tuo primo incontro con la scrittura? Come è nata la passione per la poesia?
Quello con la poesia è stato letteralmente un incontro fortuito e insieme il più classico dei colpi di fulmine. Appartengo a una generazione (forse l’ultima) che si recava in biblioteca quando c’era qualche ricerca da fare per la scuola. Non c’era Google a portata di palmo ma scaffali di enciclopedie e schedari da scartabellare. Un giorno, in attesa che l’addetto mi prendesse dal retro un volume che mi serviva, iniziai a sfogliare sovrappensiero un libro posato sul tavolo in attesa di essere ricollocato. Si trattava di un’antologia, Poesia americana contemporanea edita da Guanda negli anni Cinquanta. Aprii a caso e mi trovai di fronte Emily Dickinson. Cupido aveva scoccato il suo dardo. Portai quel volume con me al banco e, ovviamente, la ricerca per cui mi trovavo lì fu rimandata. Bevvi d’un sorso quel volume, poi presi Poesia inglese contemporanea e poi, via via, in ogni momento libero mi rifugiavo in biblioteca a leggere versi di ogni epoca e di ogni luogo. La scoperta che la poesia fosse altro dagli obblighi scolastici credo sia stata una delle scoperte più importanti della mia vita.
Nocte. Nascita di un solstizio d’inverno è stato uno dei tuoi primi lavori. Come hai sviluppato questa raccolta?
Nocte è stato il primo libro che abbia pubblicato. Come spesso accade, mi appare oggi con facilità un lavoro immaturo, mi verrebbe da dire letteralmente immaturo: quel poemetto uscì in aprile, tre mesi prima che io prendessi la maturità scientifica. Il punto di partenza era molto semplice: il testo racconta i pensieri di un uomo che passa del tutto insonne la notte del solstizio d’inverno. Tutto il testo è innervato da quella che era la mia grande passione poetica di allora: ero cedevole a una versificazione profetica, divinatoria; equilibravo le mie preferenze tra Gibran e Pasolini, tra il Qoelet e Bob Dylan. Come in ogni lavoro immaturo, la presunzione in Nocte era detonante.
Quaderno croato è uno dei tuoi lavori più recenti. Da quali esperienze lo hai maturato?
Quaderno croato è a ora la mia ultima pubblicazione. Nasce al ritorno da un viaggio in quei luoghi davvero come un’esigenza. Non era premeditato che scrivessi di quell’esperienza, non avevo preso appunti con me in quei giorni. Ma una volta rientrato ho sentito dentro uno strabordare di significati: lo specchiarsi nell’Adriatico delle sue opposte sponde, i segni dei terremoti condivisi e le ali leonine della Serenissima, il lutto mai sbiadito di quella che è stata la guerra centrale della mia generazione e, non ultimo, il peso di un cognome, quale il mio, che rivela nella sua etimologia radici slave … ero rientrato rigonfio di troppe suggestioni per non scriverne.
Mavi è una delle tue rare incursioni nel mondo della narrativa. È una storia dove il tema portante è quello del viaggio. Come sei riuscito a mettere in piedi un libro che racchiude così tante realtà diverse?
Penso al viaggio più come a uno strumento che come a un tema in sé. Che sia in prosa o in poesia, il mio lavoro orbita quasi sempre attorno a tre temi principali: influenza dei luoghi, paradossi del tempo, ineludibilità dei rapporti familiari con tutte le loro conseguenze. In questa ottica il viaggio sa essere uno strumento utile e condivisibile tra i temi. Le tante realtà diverse del libro vogliono restituire la complessità che sottende a ogni piccola storia e che ci lega indissolubilmente alla storia grande. Penso si possa dire che il protagonista principale in Mavi sia proprio il periodo storico nel quale la storia si svolge: i sette mesi che vanno da luglio 2001 a febbraio 2002 sono caratterizzati da una sorta di overdose di avvenimenti, dal G8 alle Torri Gemelle, dal crack argentino all’arrivo dell’Euro … A distanza di più di vent’anni a me sembra di riconoscere in quei mesi l’origine di ogni crisi attuale.
Nel tuo percorso di autore un ruolo cruciale lo hanno occupato appunto i viaggi. Roma, Bologna e il Salento sono sicuramente tre tappe irrinunciabili di questo percorso. Cosa ti ha lasciato ciascuna di queste esperienze?
Se dovessi associare un parola, un significato a ciascuno dei tre luoghi che indichi, direi: opportunità, ambizione e radici. Roma mi ha dato opportunità, opportunità nelle persone incontrate, nelle cose imparate, l’opportunità di crescere in ogni campo; ho attraversato di Roma la sua Grande Bellezza e suoi bassifondi tiburtiniani, i suoi panorami e i suoi sotterranei. Bologna mi ha insegnato l’ambizione; non quella della carriera o delle vanità ma l’ambizione a una qualità della vita che pensi a ciascuno e insieme alla comunità. Le radici sono ciò che più ho studiato nei miei anni di lontananza e il motivo che mi ha spinto a tornare in Salento col mio bagaglio di opportunità e ambizione.
Sei principalmente un poeta, con incursioni nel mondo della letteratura. Credi un giorno di affiancare a queste attività progetti differenti legati al mondo della scrittura?
In realtà la cosa avviene già da tempo, per quanto quest’altra parte della mia produzione non sia finora emersa. Trovo che, come per un pittore che magari da sempre dipinga a olio sia importante a volte – fosse anche come esercizio personale, per uno studio di ombre o di colori – prendere in mano un carboncino o gli acquerelli, così trovo che la scrittura non possa che uscirne rafforzata dal suo sperimentarsi in più ambiti. Nel mio cassetto ci sono tre soggetti cinematografici, qualche idea per format televisivi e una ventina di canzoni di cui ho scritto anche le musiche. Tutto ciò che si impara in uno dei generi rimane nel muscolo della scrittura quando ci si cimenta in altro.
Quali sono i progetti a cui stai lavorando?
Ho chiuso proprio in queste settimane un lavoro che ha impegnato gli ultimi dieci anni della mia vita. Siamo ancora in ambito poetico, con un lavoro che si chiama Gli atleti e che ha nella Magna Grecia il suo cuore pulsante. Viene a concludere la mia personale “trilogia delle radici”, iniziata nel 2006 con Salentitudine (LietoColle) e proseguita con Guscio di noce (LietoColle, 2012). Un lavoro andato avanti per due lustri nel tentativo di forgiare un verso neo-epico, che risuonasse del mito senza scimmiottarlo. Ora inizia il periodo della ricerca della giusta casa che accolga questo lavoro, per tornare, come sempre, al giudizio atteso e insindacabile dei lettori.