di Valeria Coricciati
Umberto Galimberti, durante una conferenza, ha affermato che la speranza è una forma di passività, di inerzia. La traccia di questa affermazione è rimasta nella mia memoria e più volte mi sono soffermata a riflettere su come ogni parola che pronunciamo, anche quella che a noi sembra più semplice e comune, possa avere sfumature differenti in base all’angolatura da cui si guarda. I frequenti “eeh lo spero”, “speriamo”, “sì, lo spero tanto” e via dicendo, declinati in vari modi, spesso pronunciati a fine conversazione e accompagnati da un sospiro e dal conseguente movimento diaframmatico, hanno effettivamente un non so ché di arrendevole, di speranza passiva, di chi, senza agire, spera che qualcosa cambi. Esiste, però, anche un altro modo di sperare; una speranza attiva e che spinge la persona a non arrendersi, ad agire e combattere perché, nel suo profondo, sente che alla fine del lungo tunnel vivido di oscurità e difficoltà, c’è una luce pronta a illuminare la strada e a riscaldare la vita. Questo tipo di speranza fa bene, ti alimenta, ti sprona e ti incoraggia anche quando pensi che non ci sia via di scampo.
Così è successo a Edith Bruck, scrittrice di origine ungherese, che testimonia quanto vissuto nei campi di concentramento e annientamento per mezzo delle parole messe per iscritto e pronunciate alle numerose interviste fatte, affinché quanto accaduto non succeda più.
Durante il periodo di detenzione, la giovane Edith ha vissuto momenti dolorosi, struggenti, disumani ma i suoi occhi sono riusciti a percepire e cogliere cinque scintille di luce, luce di speranza. Questi episodi, così come la sua vita, sono descritti nel libro Il pane perduto. È in quelle occasioni che un semplice – e per noi scontato- <<Come ti chiami? >> ti travolge per la sua potenza di umanità. È una domanda che ti riconosce e ti identifica: ti dice “Io ti vedo. Tu esisti.” E questo è tutto, soprattutto quando non hai niente e quando fanno di tutto per farti sentire come se non valessi nulla.
Non possiamo minimamente paragonare le nostre sofferenze con quelle provate da Edith Bruck, eppure spesso siamo molto più arrendevoli di chi si è vista strappare da sotto gli occhi la propria casa, i propri genitori e parte della propria vita. Le nostre bocche rovesciano lamentele come se fossero rifiuti invisibili ma, pur non avendo un corpo visibile, sono ugualmente portatrici di una carica negativa infettiva. Inquinano le persone e loro menti; oscurano anche la mente di chi pronuncia le parole radioattive perché ci abituano a parlare senza ascoltare, a criticare senza cercare di capire, a gettare la spugna senza averla veramente presa in mano e iniziato a maneggiarla con forza e decisione, a chiudere le tapparelle e vedere tutto nero. Invece dovremmo aprire gli occhi, spalancare le ciglia, cogliere la luce, permettere che venga percepita dalle nostre pupille, che attivi le giuste sinapsi e spinga alle adeguate azioni per modificare, migliorare e lottare per qualcosa.