Dante

Dante 700

di Pierluigi Finolezzi e Renato De Capua

Considerato da Foscolo e De Sanctis come il massimo esempio di italianità sul quale forgiare lo spirito eroico del Risorgimento, con la sua peculiare biografia, la magnificenza della sua opera, la severità della sua indole, Dante divenne con Carducci uno tra i più bei fiori del ricco giardino della Repubblica delle Lettere del Bel Paese. Smorzando la violenta retorica patriottica, Carducci rivendicò la grandezza di Dante non solo come patrimonio italiano, ma di tutto il mondo. È così che Dante l’italiano è diventato Dante l’internazionale, il poeta letto e ammirato in tutto il mondo.
La letteratura non guarda, infatti, ai confini nazionali, ma trascende dalle differenziazioni, riprendendo e rinnovando temi, storie, episodi e personaggi che prima di parlare di loro stessi parlano ancora e sempre di noi. Dante è un patrimonio mondiale e questo lo avevano già capito nelle loro epoche e prima e dopo di qualsiasi epopea nazionalista Chaucer, Milton, Blake, Tennyson, Montale, Eliot, Pound, Borges. Dante non è mai morto, ma è sempre rimasto in mezzo in noi.

Con questo inserto intendiamo celebrare l’anno dantesco appena concluso, riproponendo ai nostri lettori i 13 post social con i quali abbiamo ripercorso in 13 tappe alcuni temi, luoghi, incontri della celeberrima e immortale opera dell’Alighieri, la Divina Commedia.

Eugène Delacroix, La barca di Dante, Museo del Louvre, 1822

Inferno I, 85-87

Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsilo bello stilo che m’ha fatto onore

Perso e smarrito nella “selva oscura”, Dante scorge all’improvviso una luce provenire da dietro un colle e si incammina verso di essa, finché non gli si fanno incontro una lonza, un leone e una lupa che lo costringono ad arretrare. A soccorrerlo dalle tre fiere interviene Virgilio, inviato in suo aiuto da Beatrice, Maria e S. Lucia.
Nell’affettuoso dialogo che segue, Virgilio rivela di essere il “poeta” che cantò del “giusto/ figliuol d’Anchise”, consentendo così a Dante di comprendere l’identità dell’anima soccorritrice. Questa presentazione fa precipitare Dante in uno stato di euforia, dal momento che ha dinanzi il suo modello per eccellenza, colui che è “fonte” e “onore e lume” e del quale ha studiato a fondo l’Eneide (vv. 83-84) a tal punto da conoscerla tutta a memoria (Inf. XX, 114). Ma Virgilio con la sua autorità è ben altro per Dante: è “maestro” cioè “colui che insegna e guida l’allievo”, ma anche “autore” cioè “colui che aumenta il sapere”.
Andando oltre, egli è ancora un modello ideale di poeta, l’esempio supremo del “bello stilo”, ma anche la prima tappa ascensionale del divenire poeta di Dante. Virgilio è un personaggio profondamente umano che soffre per la sua incompletezza e prova nostalgia per non essere riuscito a contemplare Dio. La salvezza del poeta latino è scaturita dalla sua poesia, pertanto egli può ergersi come allegoria della ragione umana non supportata della grazia, di una ragione che lo ha reso “famoso saggio”, ma che esaurirà i suoi benefici, non appena Dante si approprierà del proprio libero arbitrio.
Per il Medioevo Virgilio è anche un profeta, capace con la sua IV Ecloga di preannunciare la venuta di Cristo; un mago in grado di compiere sortilegi e di sfruttare l’astrologia (versione ricordata in Boccaccio); il cantore di un eroe che in realtà non era giusto, bensì un traditore della patria (p.e. in “Le Roman de Troie”). Pur essendogli note, queste ultime due versioni furono rifiutate da Dante perché non si prestavano al progetto della sua Commedia.

Tommaso De Vivo, Episodio della Divina Commedia di Dante: L’Inferno, Palazzo Reale di Napoli, 1863

Inferno IV, 100-102

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

Virgilio ha esortato Dante a intraprendere il suo viaggio e lo invita ad armarsi di coraggio per poter valicare la porta dell’Inferno. Dopo aver ascoltato i lamenti degli ignavi, i due viandanti giungono al fiume Acheronte che attraversano sull’imbarcazione di Caronte. Durante il viaggio Dante, atterrito da un terremoto e da un fulmine sviene per poi essere destato da un tuono una volta giunto nel I Cerchio, il Limbo, dove sono relegati i morti privi di battesimo e gli spiriti magni che non conobbero la fede cristiana (“sanza speme vivemo in disio”; v. 42).
Nella serenità del luogo, infranta solo da un senso di eterna sospensione e dai sospiri delle anime, Dante incontra tre poeti dall’“onrata nominanza” che costituiscono il suo personale canone di genere: Orazio (satira), Ovidio (poesia erotica), Lucano (epica). I tre poeti rendono onore a Virgilio, “altissimo poeta” e loro compagno nel Limbo, e sono guidati da colui che “con quella spada in mano” e “come sire” si pone a loro da “sovrano”, Omero.
Nel Medioevo l’Occidente latino non sapeva leggere il greco e non conosceva direttamente Omero, noto solo per nome e fama e screditato in autorità già nel tardoantico da Ditti Cretese e Darete Frigio. Per Dante Omero è degno di essere chiamato “poeta” proprio come si era definito Virgilio in Inf. I, ma soprattutto egli è “altissimo”, aggettivo ancora di Virgilio (v. 80), e poi anche di Cristo. È chiaro quindi che per l’Alighieri i due poeti antichi si equivalevano uno nella poesia greca e uno nella latina e sulla loro scia si poneva egli stesso come poeta moderno per eccellenza.
È proprio questa linea di continuità che viene rimarcata dalla terzina: Dante si autoelegge membro della “bella scola” dei classici, a tal punto da essere il “sesto tra cotanto senno” e quindi il loro naturale continuatore in lingua volgare.

Dante e Brunetto

Inferno XV, 55-57

Ed egli a me: Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi nella vita bella […]

Giunti nel terzo girone del VII cerchio, Dante e Virgilio sono immersi in una coltre di vapore, che scontrandosi con una pioggia di fiamme, la spegne. Lo spazio viene eclissato ma ciò non impedisce a Dante di essere riconosciuto da una delle anime dei sodomiti che lo afferra per la veste: è Brunetto Latini (1220-1295), il suo antico maestro.
Dante lo riconosce malgrado egli avesse il volto deturpato dalle fiamme. I violenti non possono interrompere il proprio andare, per non incorrere in una pena ancor più severa: cento anni di immobilità sotto la pioggia di fuoco senza la possibilità di poter evitare le fiamme, questo però non impedisce a Brunetto di sostare con il suo allievo, pregandolo di poterlo accompagnare per un breve tratto di strada facendogli da guida, un po’ come era accaduto per un alcuni anni nella vita terrena.
Nella Commedia l’autore dei “Livres du Tresor” e de “Il Tesoretto” è l’unico dannato che pronuncia il proprio nome in maniera estesa e autoreferenziale, ma anche colui che esorta Dante a seguire la sua inclinazione, profetizzandogli tuttavia l’esilio e l’ingratitudine dei suoi concittadini, davanti alle quali il discepolo mostra piena consapevolezza.
La stella a cui fa cenno Brunetto al v. 55 potrebbe essere la costellazione dei Gemelli, sotto la quale nacque Dante e che secondo l’astrologia donerebbe la predisposizione alla letteratura. Ma l’immagine della stella potrebbe non essere astrologica e rinvierebbe a un’immagine nautica, ovvero, a quella dei naviganti che devono seguire una stella-guida per poter giungere al loro porto (Bosco).
Brunetto Latini raggiunge la vera consacrazione letteraria grazie a questo incontro infernale, che diventa il testamento spirituale del maestro per l’allievo (Garavelli-Corti). Ma l’Inferno dantesco da un lato consacra questa figura, dall’altro gli fa perdere la dignitas di letterato che aveva avuto in vita, compromessa dal peccato di sodomia. I versi per il maestro sono carichi di stima e ammirazione, ma l’anima violenta ha comunque un prezzo da pagare.
Quanto a Dante egli riuscì a giungere a quel glorioso porto; a noi oggi il compito di proseguire a credere nella nostra stella, meditando l’orizzonte.

Dante e Virgilio nell’VIII bolgia

Inferno, XXVI, 124-126

e volta nostra poppa nel mattino
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal mancino

Il viaggio di Dante, che è un po’ anche il nostro, continua a svolgersi nell’Inferno. Nel XXVI canto le coordinate spaziali dell’oltretomba dantesco, ci portano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove risiedono i consiglieri fraudolenti, avvolti dalle fiamme.
Dopo aver pronunciato un’invettiva contro Firenze (vv.1-12), Dante incontra Diomede e Ulisse, e quest’ultimo inizia a narrare il proprio viaggio nel Mediterraneo. Spintosi oltre le Colonne d’Ercole (corrispondenti con lo Stretto di Gibilterra), limite invalicabile nella geografia del mondo antico, Ulisse azzarda un passo oltre il confine perché è tanta la sua brama di conoscenza. Dante, in questo canto, punisce la curiositas dell’eroe per non aver applicato su se stesso il precetto cristiano del rispetto del limite. Ne consegue la lezione attuale, che la conoscenza è un bene che si raggiunge a caro prezzo, a volte diviene un debito inestinguibile con la realtà: Ulisse è dannato in eterno, ma sono stati proprio il suo ardire e il suo osare a consegnarlo alla storia. 
Il colloquio di Dante con Ulisse può essere letto, inoltre, come un tentativo di umanizzazione dell’eroe: “Ulisse per la prima volta ha parlato sinceramente ed ha svelato il segreto della sua vita e dei suoi viaggi […]. [Ma] trascina alla morte gli stessi uomini sulla salvezza dei quali avrebbe dovuto vegliare” (Renaudet, 1952). L’Ulisse dantesco è un eroe sì audace, ma portatore di una sincera fragilità, del peso gravoso di non essere stato in grado di mettere al primo posto la salvezza dei propri compagni. Ne consegue che l’uomo si riscopre fragile dinanzi alla verità, che coincide proprio con ciò che le parole non spiegano e riescono ad accennare a fatica. 
La letteratura si muove nello spazio dell’indeterminato, attua costantemente un folle volo, perdendosi all’orizzonte per poi planare verso terra, nel tentativo di narrare ciò che ha visto. La parola innalza, eleva e traspone. Eppure un desiderio permane: l’uomo sogna ancora di volare.

Domenico Morelli, Dante e Virgilio nel Purgatorio, Prefettura di Napoli, 1845

Purgatorio, II, vv. 64-66

Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco
per l’altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà un gioco.

Dante e Virgilio si lasciano alle spalle l’oscurità dell’inferno per uscire “a riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 139). Sin dai primi versi della seconda cantica, Dante è consapevole dell’innalzamento di livello che richiede il secondo regno, cui necessita anche un conseguente elevamento stilistico, evidenziato già dalla prima terzina: “per correre miglior acque alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno/ che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purg. I, 1-3).
L’inferno si chiude con un rimando alle stelle e quindi alla luce, la stessa luce che finalmente può essere rivista sulle spiagge dell’Antipurgatorio dove comunque rimane ancora la memoria del “mar crudele” che i due viaggiatori hanno dovuto attraversare. Ma il ricordo di ciò che “lascia dietro a sé” non può durare a lungo, dal momento che tutto il resto del viaggio è contraddistinto da una costante ascesa che non permette alcuna reminiscenza dell’abisso.
Il primo personaggio che Dante incontra in questa nuova realtà è Catone Uticense che la Commedia ha eletto come guardiano del Purgatorio. L’antico romano si pone dinanzi ai due viandanti con durezza convinto che essi siano giunti dall’Inferno infrangendo le leggi divine. Dopo aver interloquito con Virgilio, Catone decide di concedere il passaggio in nome di quella libertà che Dante persegue ai fini della salvezza e che lo stesso Uticense aveva difeso sino alla morte.
Compiuto il rito purificatorio, i due poeti restano incerti sulla via da seguire finché non vedono comparire sulla superficie del mare un lume. Ancora una volta un segno di luce, davanti al quale questa volta Dante non può che inginocchiarsi, dato che si trova al cospetto del primo angelo dell’interregno. Proprio come Caronte nell’Inferno, compito di questo angelo è quello di guidare la nave dei penitenti “sdegnando li argomenti umani”, il “remo” e le vele. Il traghettatore deposita le anime sulla spiaggia e qui avviene l’incontro con i due poeti che vengono interrogati sulla strada da seguire. Virgilio e Dante spiegano di essere inesperti del luogo che hanno raggiunto poco prima percorrendo una via “aspra e forte”.
La memoria delle pene infernali è ancora impressa nella mente di Virgilio e Dante, ma l’ascesa ormai “parrà un gioco”. Tuttavia, prima c’è posto per la meraviglia, la stessa che si presenta nei penitenti nel notare Dante “ancora vivo”, cioè in carne ed ossa. È tra queste anime che si fa avanti Casella, il compositore dall’amoroso canto, l’amico dell’Alighieri che in vita aveva musicato molti dei suoi componimenti.
L’immobilismo non si addice però alle anime del Purgatorio ed ecco la severità e l’integrità di Catone che invita tutti a mettere da parte la pigrizia. L’ascesa verso la salvezza e la contemplazione di Dio può e deve continuare.

Salvator Dalì, Dante tra le anime degli invidiosi, 1960-1963

Purgatorio XIV, 148-150.

Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne
e l’occhio vostro pur a terra mira.

La scalata della montagna del Purgatorio prosegue. Dante e Virgilio giungono nella II cornice dove espiano i peccati le anime invidiose, tra le quali avanzano meravigliate quelle di Guido del Duca e di Rinieri da Calboli.
L’incontro con i due nobili romagnoli fornice ancora una volta a Dante il pretesto per inveire contro “li abitator de la misera valle” d’Arno e per condannare i tempi presenti e tessere le lodi del glorioso passato e delle antiche nobiltà impregnate di virtù e cortesia. È noto quanto il legame tra Dante e la sua Firenze fu turbolento e il poeta non si esime dal sottolinearlo in più punti delle sue opere (incontri con Ciacco, Farinata, Cacciaguida). Tutta la civiltà comunale diventa in Purg. XIV bestialità irrazionale e caotica barbaria. La ferinità di Pisa e Pistoia, incarnate nell’Inferno da Vanni Fucci e Ugolino, abbraccia qui tutto il corso dell’Arno, i cui abitanti sono paragonati a porci, volpi e botoli. A Firenze si vedono “can farsi lupi” con trasformazione dell’animale del veltro di Inf. I. nel suo opposto violento, il lupo, presente tra le ferie sempre di Inf. I. I Fiorentini sono lupi famelici che da paladini della giustizia ed eredi dei Romani sono diventati bestie tra le più feroci di tutta la Toscana, il nome della cui città non merita nemmeno di essere nominato per la sua indegnità.
Passato e presente si scontrano qui come nelle parole di Marco Lombardo (Purg. XVI), facendo eco alla posizione etica e politica di Dante: l’anima semplicetta insegue i piaceri e per indirizzarsi al bene ha bisogno di “guida” e “freno”, ma se tale “guida” mira al male anche l’umanità è corrotta dalla “mala condotta”.
Guido ammonisce “o gente umana, perché poni ‘l core/ là ‘v’è mestier di consorte divieto?”, perché, uomini, vi concentrate sui beni terreni?; Virgilio rammenta negli ultimi versi di Purg. XIV che c’è un “duro camo/ che dovria l’uom tener dentro sua meta”, ma gli uomini preferiscono abboccare all’esca demoniaca della mondanità, dimenticandosi di tutte le bellezze che li circondano e di cui li ha resi partecipi Dio.

Amos Nattini, Stazio

Purgatorio XXI, 103-105

Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ‘Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole.

Dopo esser transitati nelle cornici degli iracondi e degli accidiosi, Dante e Virgilio giungono nella V, dove espiano la pena gli avari e i prodighi, “giacendo a terra tutta volta in giuso”. È in questo luogo che avviene uno degli incontri più significativi del Purgatorio, quello con il poeta latino Stazio.
Parlare di questo personaggio significa ancora una volta parlare di poesia. Stazio si ritiene degno di quel “nome che più dura e più onora”, ovvero del titolo di “poeta”. Origine del suo ardore poetico furono quelle “scintille de la divina fiamma”, cioè dell’Eneide virgiliana che per Stazio fu “nutrice” e “mamma”.
Stazio prova devozione per Virgilio e per incontrare il maestro e modello sarebbe disposto ad appesantire la sua pena. È nell’istante stesso in cui si manifesta questo desiderio che esso viene esaudito, ma tutto resta nell’ignoto: Stazio non sa di avere davanti Virgilio, ma Dante sì e sorride.
Tra Dante e Virgilio si presentano complicità, intesa, sintonia e intimità, tutte custodite nel “viso” e nel “tacendo” ma soprattutto in quel “Taci” che fa strizzare l’occhio al lettore della Commedia. Stazio comprenderà di essere al cospetto di Virgilio nel XXII canto e si getterà ai suoi piedi entusiasta.
La grande novità dantesca è quella di aver fatto di Stazio un poeta cristiano, convertitosi segretamente (e per questo costretto al Purgatorio) al cristianesimo grazie alla IV ecloga di Virgilio. La scelta non è casuale, ma risponde ad un’esigenza precisa di Dante: Stazio rappresenta il secondo stadio del “divenire poeta”. Dopo Virgilio, poeta pagano latino, Dante si fa accompagnare da Stazio, poeta cristiano latino, per poi divenire grazie alla sublime materia del Paradiso, il Poeta cristiano volgare per eccellenza.

Ruggero Focardi, Dante e Beatrice nel Paradiso Terrestre, 1901

Purgatorio XXX, 31-33.

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

Nell’atmosfera mistica del Paradiso Terrestre avviene il passaggio di consegne tra le guide dantesche: alla candida apparizione di Beatrice corrisponde l’improvvisa scomparsa di Virgilio, alla ragione subentra la teologia. Trafitto dopo tanto tempo dalla bellezza della donna, Dante cerca conforto tre le braccia del suo maestro, ma Virgilio non c’è più e al poeta non resta che omaggiarlo traducendo e inserendo nel XXX canto un celebre verso dell’Eneide (adgnosco veteris vestiagia flammae).

Tosto che ne la vista mi percosse
L’alta virtù che già m’avea trafitto
Prima ch’io fuor di puerizia fosse,

Volsimi a la sinistra col respitto
Col quale il fantolin corre a la mamma
Quando ha paura o quando elli è afflitto,

Per dice a Virgilio: ‘Men che dramma
Di sangue m’è rimasto che non tremi:
Conosco i segni de l’antica fiamma’.

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
Di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;

Né quantunque perdeo, l’antica matre,
Valse a le guance nette di rugiada
Che, lagrimando, non tornasser atre. (Pg. XXX, 40-54)

Nell’istante in cui Virgilio si congeda da Dante lo affida silenziosamente a Beatrice, colei che consentirà al Sommo di fare il suo salto di qualità verso l’empireo paradisiaco, ma anche verso il divenire un ‘poeta cristiano volgare’ che non ha ormai più nulla da attingere dai classici latini. Infatti quando Virgilio lascia Dante, si porta a compimento il rapporto del poeta con la classicità e la tradizione. Tocca a Beatrice ora indirizzarlo verso un’altra direzione. All’epilogo del loro viaggio, Virgilio è ormai tutto: madre, padre, guida, maestro, poeta. Virgilio svanisce perché ormai ha fornito a Dante tutto ciò che poteva dargli, in particolare la capacità di discernere il bene dal male, ovvero il libero arbitrio (‘per ch’io te sovra te corono e mitrio’; Purg. XXVII, 142).
La semantica della maternità, però, tanto diffusa nella Commedia, sarà lasciata in dote anche a Beatrice: ella è la donna amata che continua ad amare e a cantare, ma anche la donna angelicata, la donna della salvezza, l’allegoria della teologia e della fede. Il viaggio può continuare ed innalzarsi sino ai cieli del Paradiso!

William Dyce, Dante e Beatrice, Aberden Art Gallery & Museum Collections, 1840-1850

Paradiso I, 4-6.

Nel ciel che più della sua luce prende
fu’io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende

La terza cantica si apre con un proemio, nel quale Dante alla pari dei grandi poeti epici dell’antichità, invoca l’aiuto delle Muse e di Apollo per poter cantare la sublimità e solennità del Paradiso.
L’atmosfera che dà avvio alla parte finale del viaggio dantesco è la stessa che conclude il Purgatorio ed è rappresentata dal Paradiso Terrestre, da dove Beatrice e Dante fissano il sole a tal punto da vedere brillare in cielo un fuoco incandescente.
Trasumanar” (v. 70), cioè percepire la propria condizione e percezione ai limiti dell’umano, è la parola-chiave che rappresenta nella sua totalità l’essenza del I Canto del Paradiso. Ma il “trasumanar” è prima di tutto un fenomeno che si realizza nell’economia della narrazione nel momento in cui Dante non riesce più a sostenere la vista del sole e d’istinto si rivolge all’amata Beatrice, cogliendo la luce divina riflessa nei suoi occhi. Solo dopo aver ottenuto il conforto dalla donna, Dante può nuovamente essere attirato dalla bellezza delle sfere celesti, udirne la melodia e vederne la luminosità, inaccessibili a chi ha i piedi sulla terra. Il mistero è svelato: Dante e Beatrice hanno si sono destati, stanno volando velocissimi verso il Paradiso. La loro ascesa è cominciata!
Il corpo non è più un limite: Dante ha ormai preso coscienza del suo libero arbitrio, può mettere a frutto il suo istinto e tendere verso il fine dell’uomo che, come spiega Beatrice, è rappresentato dalla felicità. Libertà è ancora la parola che ritorna nella Commedia, dopo le eco catoniane: Dante è libero dal peccato ed è naturale che ora si alzi verso il cielo.

Annibale Gatti, Dante in esilio, Galleria degli Uffizi di Firenze, 1854

Paradiso XVII, 58-60.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale

Nel cielo di Marte c’è un’anima che viene incontro a Dante e Beatrice: è Cacciaguida.
L’antenato dell’Alighieri ripercorre la sua vita, le imprese militari, il conferimento del titolo di cavaliere e la morte in Terra Santa durante la seconda crociata. Ma le parole più importanti, affidate a questa anima beata, sono quelle che confermano l’esilio e le sofferenze che Dante dovrà patire dopo esser stato allontanato dall’amata Firenze. 
Dante apparteneva al partito guelfo dei Bianchi. La presa di potere dei Neri, appoggiati da papa Bonifacio VIII, mise al bando numerosi esponenti del partito avverso e tra questi ci fu Dante che, di ritorno da un’ambasceria fuori città, dovette in fretta e furia allontanarsi dalla sua patria. Iniziò per lui una lunga stagione di peregrinazioni e di speranze vanificate, almeno finché la rassegnazione non prese il sopravvento.
Ma ad attendere Dante non c’erano soltanto dolori. Cacciaguida rivela che il suo discendente riceverà prove di magnifica ospitalità, soprattutto presso gli Scaligeri e da Cangrande, di cui profeticamente vengono tracciate le imprese. A Dante però non basta. Il timore prende il sopravvento: è bandito da Firenze e ha paura che da esiliato possa essere bandito dal mondo intero. Ancora una volta con parole profetiche che risuonano per l’eternità Cacciaguida ribadisce che i versi di Dante saranno sì amari, ma forniranno “vital nodrimento” a chiunque le voglia ascoltare. Dante ha ricevuto un’investitura ufficiale e in questo ruolo continua a parlarci da 700 anni.

Nicola Canova, Puro e disposto a rivedere le stelle, realizzazione grafica, 2021

Paradiso XXV, 7-9.

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l capello.

Giungiamo a compimento del percorso ascensionale di Dante verso il “divenire poeta”. Dante è il nostro Poeta per eccellenza, eppure nella Commedia egli non si definisce mai tale, almeno sino a questo punto.
La parola ‘poeta’ ritorna nella Commedia circa una trentina di volte e ogni volta che s’incontra porta con sé un significato particolare. Per Dante ad essere degno del titolo di ‘poeta’ è innanzitutto Virgilio, per il quale il termine ritorna più volte. Ma Virgilio riconosce a sua volta la superiorità di un altro poeta che definisce ‘sovrano’, Omero, e a sua volta è riconosciuto come mediatore e modello da un altro ancora che è Stazio.
E Dante? Dante è un’ombra di Virgilio, deve tutto al suo ‘maestro’, ma per tutto l’Inferno, il Purgatorio e buona parte del Paradiso non si è mai ritenuto degno del titolo onorifico di ‘poeta’. È solo dopo esser stato al fianco dal poeta latino pagano Virgilio, dopo aver conosciuto il poeta latino cristiano Stazio, essersi confrontato con i provenzali e gli stilnovisti, essersi cimentato a descrivere l’indescrivibile che Dante diventa il poeta volgare cristiano e può finalmente assumersi il peso dell’essere il Poeta.
Paradiso XXV è il canto della speranza, il canto dove Dante si augura, seppur anziano e diverso da quell’uomo che aveva dovuto lasciare Firenze, di ritornare nella sua patria da ‘poeta’ e ricevere la corona di alloro nei pressi del Battistero di San Giovanni. Dante ha ormai raggiunto una convinzione: è un poeta e con orgoglio non lo cela a nessuno.

Antonello da Messina, Annunziata di Palermo, Galleria Regionale di Palermo, 1475 ca.

Paradiso XXXIII, 4-6.

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

All’ostacolo costituito dalle tre fiere in Inf. I s’oppongono le “tre donne benedette” di Inf. II: alla lussuria, alla superbia e all’avarizia fanno fronte la carità, la speranza e la fede di cui sono allegoria Maria, S. Lucia e Beatrice, figure sante e mistiche che simbolicamente incarnano anche il potere della Grazia che previene, che illumina e che opera. A ricordare a Dante lo scopo del viaggio e chi lo ha permesso è Virgilio che esorta il poeta a non farsi schiacciare dal timore e a confidare nel disegno divino che queste tre donne hanno tracciato per lui, distogliendo lo stesso mantovano dalla sospensione del Limbo.
Nella Commedia Maria è una figura silente, ma degna di profonda venerazione e contemplazione dato il profondo significato religioso e storico che incarna. Nel Purgatorio ella è un esempio di virtù, ricordata all’ingresso di ogni cornice (umiltà, carità, mansuetudine, sollecitudine, povertà, liberalità, frugalità e castità). Nel Paradiso la Vergine è più volte invocata, ma compare soltanto nel XXXI Canto dopo il congedo di Beatrice e l’incontro con s. Bernardo.
Di fronte alla rosa dei beati, Bernardo mostra a Dante il seggio della Vergine che supera in luminosità tutti gli altri, costringendo chi guarda a tenere fisso lo sguardo su di lei (Par. XXXII). All’incipit di Par. XXXIII appartiene, invece, la famosissima preghiera che Bernardo rivolge a Maria affinché interceda presso Dio per consentire a Dante di assistere al trionfo di Cristo e di avere il privilegio di fissare il suo sguardo nella mente divina.

G. Dorè, La Rosa dei beati, 1861-1868

Paradiso XXXIII, 142-145.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Il viaggio di Dante giunge a compimento con un insegnamento rimasto imperituro: è l’amore a muovere il sole e tutte le altre stelle!
L’ultimo verso del Paradiso racchiude in se stesso tutto il significato della Commedia: l’amore è il motore dell’universo, ciò che dà vita a tutto e ciò a cui tutto ritorna. Senza amore non c’è vita e solo chi è disposto ad amare e ama ogni giorno può cogliere il vero senso della vita.
Il v. 145 Dante lo dedica a Dio, infinita carità, amore primo, forza che trascina il mondo.
Per noi ad essere protagonista è l’amore, forza dotata di una tale energia da trascinare e muovere le passioni. Dante è finalmente asceso “al ciel ch’è pura luce;/luce intellettual, piena d’amore;/amor di vero ben pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore”; ha ascoltato la preghiera d’intercessione di Bernardo alla Μadonna; dopo aver espiato i peccati ed essersi purificato dai vizi umani si è affidato totalmente a Dio, un Dio che finalmente può guardare concependone la perfezione totalizzante; può contemplare il mistero della Trinità; godere infine di una beatitudine eterna che si concretizza nel lampo di luce che soddisfa il suo desiderio di Grazia.
Dante è al cospetto dell’eterna e infinita Bellezza, può dire tutto quello che ha visto, ma neanche il suo essere Poeta è sufficiente a tale compito: nessuna parola può cogliere a fondo l’indicibile dell’Empireo. Ciò che resta impresso a Dante è soprattutto il grande amore, lo stesso amore che Clinamen riserva ogni giorno a tutti i suoi lettori!