Dal lavoro. Il ritorno dalla filanda – Eugenio Spreafico, 1890-1895
di Alessandra Macrì
“Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità. La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito. Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi. Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. […]Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono. Me ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Il bimbo aveva già due anni ed essa gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare: questo bimbetto l’aspettava, ogni sera, seduto sullo scalino del basso.[…][1].
Il brano è tratto dal secondo capitolo[2] del romanzo-inchiesta Il ventre di Napoli, di Matilde Serao. La scrittrice denuncia e “fotografa” le condizioni dei napoletani nel periodo del colera che colpì la città nel 1884 [3], in particolare, qui, descrive dettagliatamente la condizione delle donne a Napoli.
Sono “fortunate” quelle donne che “arrivano ad allogarsi”, che trovano un posto come operaie, le altre devono lavorare come domestiche nelle case dei borghesi, guadagnano pochissimo “Annarella faceva tre case al giorno, a cinque lire”. Donne che trovano il tempo per crescere i figli, di accudire la casa, di fare la calza. Queste donne invecchiano precocemente “hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta”, sono donne trascurate, provate dalla fatica, dalla miseria e dalle percosse.
La Serao sottolinea le situazioni in cui si trovano le donne lavoratrici: mentre lavorano, devono abbandonare i figli, le creature, i piccoli sono accuditi dalle sorelline. Madri sempre “inquiete, agitate”, mentre lavorano pensano a tutti i pericoli che incorrono i figli lasciati soli a casa. Dunque, la totale assenza dei diritti delle donne lavoratrici. Ancora, sulle mamme scrive :”Me ne rammento una” è il caso di una donna con tre figli ma, non riuscì a far crescere il più piccolo…
Eppure, la Serao, descrive la gente che vive in quei quartieri popolari, come gente che non è “bestiale” come il luogo in cui abitano, ”non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline”[4]. Il popolo dei napoletani ama i colori allegri, la musica e la canta così “amorosamente e così malinconiosamente”[5]. La scrittrice nel “ventre” di Napoli vede un popolo autentico e umano ma, le donne, si privavano di ogni dignità. “Non si lamentano, non piangono: vanno a morire”[6], pur di rimanere madri, mogli e donne lavoratrici in una Italia, a ridosso dell’unificazione, in cui emerge “la questione meridionale”, il divario tra Nord e Sud della penisola e che, per risolvere le tante problematiche postunitarie, il primo ministro dell’epoca Agostino Depretis aveva pronunciato la frase “sventrare Napoli” e la Serao ribatte: “Efficace la frase: Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avete torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto”[7]. Nel “ventre”, nel grembo, ci sono le donne, le madri e le figlie. La scrittrice e giornalista, darà testimonianza efficace. Fortunate noi… che diamo voce a ogni ingiustizia sociale.
[1] M. Serao, Il ventre di Napoli, Treves 1884.
[2] M. Serao, in op. cit, cap. II, Quello che guadagnano.
[3] Fu un anno tragico per l’ex capitale borbonica: una devastante epidemia di colera si abbatté sulla città, con risvolti disastrosi in particolare per i quartieri popolari.
[4] M. Serao, Il ventre di Napoli, edizione integrale a cura di Patricia Bianchi, Roma 2009, p.47.
[5] M. Serao in op cit., p.47.
[6] M. Serao in op cit. ,p.51.
[7] M. Serao, in op. cit., capitolo I, p.41.