di Enrico Molle
Negli ultimi anni del Quattrocento, mentre le navi portoghesi costeggiavano l’Africa per raggiungere l’Oceano Indiano, la corona di Castiglia promosse una spedizione nell’Oceano Atlantico di enorme portata storica. In questo contesto, il genovese Cristoforo Colombo propose alla regina Isabella di Castiglia di organizzare e di finanziare una spedizione navale che doveva arrivare in Cina navigando verso occidente, basandosi sulla convinzione della sfericità della terra. Nonostante le perplessità e il grosso costo del progetto, Colombo ottenne il denaro necessario a equipaggiare tre caravelle. Il 2 ottobre 1492 le tre navi, dopo due mesi di navigazione, approdarono sulla terraferma: si trattava di un’isola delle attuali Bahamas, alla quale Colombo diede il nome di San Salvador, prendendone possesso a nome della Corona castigliana. Tuttavia il genovese era convinto di aver raggiunto una delle propaggini del Giappone e con il suo rientro in Spagna nel 1493, si aprì la fase delle esplorazioni delle terre a occidente dell’Oceano Atlantico.
La scoperta di queste nuove rotte pose a portoghesi e spagnoli il problema della delimitazione dei rispettivi diritti e, poiché l’espansione della fede cristiana rappresentava per entrambe la motivazione ufficiale delle spedizioni alla ricerca di una via diretta per l’Estremo Oriente, fu papa Alessandro VI nel 1493 a stabilire con tre bolle una linea di demarcazione corrispondente a un meridiano a cento leghe di distanza dalle Azzorre (successivamente, con il trattato di Tordesillas del 1494, viene spostata a trecentosettanta leghe dalle isole di Capo Verde): le terre a ovest di questa linea venivano attribuite alla Spagna, quelle a est al Portogallo.
Pochi anni dopo, con il viaggio compiuto dal fiorentino Amerigo Vespucci nel 1501, prese corpo l’idea che le terre scoperte da Colombo non facessero parte dell’Asia, ma fossero un vero e proprio Nuovo Mondo.
Nonostante la ricerca di una nuova rotta per l’Oriente rimase di grande importanza, la Corona spagnola autorizzò lo sfruttamento delle nuove terre americane: le isole di Santo Domingo e Cuba si riempirono di alcune migliaia di soldati, nobili decaduti e avventurieri spinti dalla brama di ricchezze. La ricerca dell’oro fu infatti la molla principale per l’espansione nel nuovo continente, dove molto spesso si incontravano popolazioni indigene del tutto sconosciute. Queste vennero immediatamente obbligate a uno sfruttamento disumano e, complici alcune malattie provenienti dall’Europa sconosciute nel Nuovo Mondo, il loro crollo demografico fu spaventoso. Ruolo importante in questo processo ebbero i conquistadores che con la potenza delle armi da fuoco, unita a notevoli dosi di spregiudicatezza e crudeltà, in pochi anni piegarono le popolazioni autoctone: fu proprio in questi anni che si verificò il declino dell’impero azteco e di quello inca per mano dei celebri Hernán Cortés e Francisco Pizarro.
La brama d’oro e di pietre preziose diede il via alla sistematica e violenta distruzione delle città e della popolazione e portò ad avviare attività di estrazione dei metalli preziosi nelle miniere già note agli indigeni, purtroppo ridotti in schiavitù e divenuti preziosa manodopera per i conquistadores.
Tuttavia, superata la fase delle esplorazioni e della conquista, nei decenni centrali del XVI secolo ebbe inizio un consolidamento della sovranità della Corona spagnola, per mezzo della creazione di istituzioni preposte al governo degli immensi territori dell’America centrale e meridionale. Anche lo sfruttamento delle risorse naturali cominciò a perdere quei tratti di mero saccheggio che, accompagnato da crudeltà di ogni genere, aveva caratterizzato la prima fase della conquista, per trasformarsi in un’attività relativamente organizzata che coinvolse tanto i privati quanto la Corona. Pertanto i conquistadores cercarono di organizzare il territorio secondo gli schemi della loro terra d’origine e, una volta sottomesse le popolazioni indigene, realizzarono città e villaggi e istituirono municipi che, data la lontananza dalla madrepatria, assumevano notevoli poteri.
Per ovviare a contrasti interni tra i vari conquistadores, la Corona spagnola diede vita all’encomienda de indios, un istituto giuridico che non riguardava il possesso della terra, ma prevedeva semplicemente che il sovrano affidasse a ciascun colono un certo numero di indigeni americani, ai quali venne impartito l’insegnamento della fede cattolica. In cambio gli indigeni erano tenuti a prestare il proprio lavoro nelle case, nelle miniere e nelle terre dell’encomendero. Tuttavia l’encomienda divenne oggetto di tensioni fra la società coloniale e il sovrano, poiché quest’ultimo avvertiva il pericolo della nascita di un’aristocrazia nel Nuovo Mondo, dove l’autorità regia era decisamente debole (tali contrasti erano però destinati a scomparire verso la fine del Cinquecento a causa del tracollo demografico delle popolazioni indigene).
Per regolare i rapporti economici con le colonie americane, la Corona spagnola cercò di creare strumenti efficaci per assicurarsi i più ampi benefici. Nel 1503 venne istituita a Siviglia la Casa de Contratación, un ufficio regio che aveva il monopolio dell’organizzazione dei traffici commerciali con le colonie, ivi compreso quello dei metalli preziosi, in più esigeva le imposte sulle merci in partenza e in arrivo dall’America ed esercitava la giurisdizione penale e civile su tutte le cause relative al commercio e alla navigazione. Accanto a quest’ente dipendente dalla Corona, sorse il Consulado, un’istituzione privata (almeno sulla carta) di tipo corporativo che riuniva i mercanti di Siviglia e della regione circostante, l’Andalusia, che partecipavano ai traffici con l’America da una posizione di forza. Tramite queste due istituzioni, la Corona e i gruppi mercantili castigliani, naturalmente interessati a un regime monopolistico nel commercio con le colonie, stabilivano non solo i prezzi e le quantità delle merci che venivano inviate in America, ma anche i prezzi delle derrate che da essa provenivano, ricavando enormi profitti.
In un contesto del genere, la principale ossessione di tutti i conquistadores partiti dalla Spagna alla volta del Nuovo Mondo rimase l’oro che, per i primi tempi dell’avventura coloniale spagnola, era esclusivamente prodotto di ruberie, bottini e saccheggi, pratica che per ovvi motivi non poteva durare all’infinito in quanto la consistenza dei tesori, presto o tardi, si sarebbe esaurita. Tale destino sarebbe spettato infatti agli spagnoli se, grazie a una straordinaria fortuna, non avessero scoperto eccezionali giacimenti auriferi e argentiferi nei territori da loro conquistati. Di fatto, terminate le risorse da depredare agli indigeni, gli spagnoli avviarono, come sopra accennato, delle attività minerarie e ciò fu reso eccezionalmente semplice proprio dal rinvenimento, tra il 1545 e il 1546, dei giacimenti argentiferi di Potosí e di Zucatekas, che divennero le due fonti principali della ricchezza della Spagna, destinata a passare da paese di secondo o terzo ordine a paese più ricco e influente al mondo. Tra l’altro l’estrazione del metallo con il sistema tradizionale della fusione, che a lungo andare si sarebbe potuta dimostrare difficoltosa, venne raggirata dall’avvento di nuove tecniche di estrazione mineraria che prevedevano l’uso del mercurio.
Queste innovazioni furono propizie alla Spagna che possedeva ricche miniere di mercurio nel territorio interno (Almadén, zona a nord di Cordoba) e che ben presto venne a conoscenza di un luogo chiamato Huancavelica, dove erano situata una miniera in cui gli indios lavoravano da tempo immemorabile per estrarre il cinnabar (la tintura che usavano per dipingersi il corpo) e dalla quale si poteva ricavare anche il mercurio.
Venne quindi messo a punto un sistema di scambi tra la Spagna e le sue colonie americane che prevedeva due partenze annuali di flotte dirette in Sud America. La materia maggiormente importata nelle colonie era appunto il mercurio, seguivano poi merci di ogni tipo, poiché le colonie necessitarono per tutto il corso del Cinquecento di ogni tipo di prodotto essenziale per la sopravvivenza (come l’olio o il grano). Il carico di ritorno si caratterizzava in prevalenza di quello che veniva chiamato “il tesoro”, ossia oro, argento e perle, affiancato da merci specificamente prodotte nelle colonie. Chiaramente il tesoro era la categoria di gran lunga dominante, con quantità che superavano anche di dieci volte quello delle altre merci. In un sistema di scambio navale di tale portata era facile incappare in problemi dovuti alle calamità naturali, considerate anche le distanze da percorrere, o all’attività piratesca (questa si verificava su un doppio fronte: quello mediterraneo per mano di pirati barbareschi; quello atlantico dovuta alla pirateria organizzata da francesi, inglesi e olandesi in funzione antispagnola). Nonostante periodi di difficoltà e di dure perdite, alla lunga il sistema dei convogli messo in atto dagli spagnoli funzionò in modo più che soddisfacente.
Parallelamente in Europa, nella seconda metà del secolo XV furono scoperti ricchi giacimenti di argento nelle Alpi e negli Erzgebirge, specialmente a Schwaz in Tirolo e a Schneeberg in Sassonia. L’eccezionale abbondanza di argento diede vita a una importante riforma monetaria che cambiò il volto della monetizzazione europea. Di fatto, prima in Italia, poi in Germania e nelle maggiori potenze europee come Francia e Inghilterra, si optò per la coniazione di monete a base di argento con spessore nettamente maggiore rispetto a quelle medievali, sottilissime e che potevano essere facilmente piegate.
Nella penisola iberica invece, nonostante alcune riforme attuate da Ferdinando e da Isabella, il sistema di monetazione rimase ancora di stampo medievale, tant’è che inizialmente, negli scambi commerciali con le colonie, la moneta metallica era estremamente rara. Per ovviare a questo inconveniente si decise di coniare in Spagna, con il metallo ricevuto dalle colonie, monete da destinare al commercio con esse. Il grande afflusso di argento consentì così alla Corona spagnola di adeguarsi al resto d’Europa e comparve sul mercato il real de a ocho[1] (real da otto), ossia la moneta con il valore di otto reali, conforme fisicamente a quelle già coniate in Italia e Germania. Questa rappresentò la moneta spagnola più usata nei pagamenti internazionali, tra l’altro molto ricercata e apprezzata, fattore che le permise una diffusione rapida ed estesa in tutta Europa. Ciò consentì a chi possedeva reales de a ocho di avere un potere d’acquisto spendibile in gran parte del mondo, con la conseguenza che il grande afflusso di argento che arrivava in Spagna scivolasse velocemente in altre nazioni, aprendo loro l’opportunità di espandere notevolmente il commercio con l’Oriente. Una volta riversate le migliaia di tonnellate di reales nelle varie parti d’Europa, la Spagna perdeva ogni controllo su questa massa monetaria: a manovrare la distribuzione e le correnti dei reales furono Genova e il Portogallo prima, e le Compagnie delle Indie olandesi e inglesi poi.
La saga dell’argento spagnolo ha destato molto interesse in ambito storiografico e sovente si è cercato di capire quali sono stati i meccanismi che hanno portato la Spagna dallo splendore del XVI secolo al declino del XVII, nonostante il grandissimo influsso di argento derivante dalle colonie sudamericane. Siamo al corrente infatti che di tutto l’argento pervenuto in Spagna, ben poco ne sia rimasto all’interno del paese e ciò va posto alla base del suo declino. Bisogna tener conto che circa il 75-80% dei tesori che arrivavano in Spagna dalle Indie rappresentava il ricavato delle vendite fatte dai privati nelle colonie e il rimanente 20-25% rappresentava il reddito della Corona, ovvero le royalties percepite sull’attività mineraria dei sudditi, i dazi sulle importazioni ed esportazioni di merci e donativi vari; a questo si aggiungeva il ricavato delle vendite del mercurio delle miniere di Almadén, effettuate in regime di monopolio. Tuttavia la Corona spagnola aveva la pessima abitudine di essere perennemente indebitata e i tesori che arrivavano dalle Indie erano solitamente spesi ancor prima di giungere in patria. L’indebitamento era dovuto soprattutto al mantenimento degli eserciti sui vari fronti, quindi le ingenti quantità di metalli preziosi che la Corona spagnola sborsava per pagare i suoi debiti uscivano dal territorio iberico per riemergere nelle zone di guerra. Per citare alcuni casi si tenga presente che, tra ottobre e novembre del 1551, con l’argento venuto dalle colonie furono coniati alla zecca di Milano reales da otto, da quattro e da due, destinati all’esercito e all’ambasciatore spagnolo risiedente a Genova, per un totale di 1,85 tonnellate che la Spagna non rivide mai più. Allo stesso modo, quando il duca d’Alba invase le Fiandre nel 1567, due immensi convogli carichi di monete e di argento accompagnarono il corso di spedizione passando per Bayonne e Parigi, seguiti negli anni successivi da ulteriori invii di tesoro per sostenere lo sforzo bellico. Uno dei risultati di questo ingente trasferimento di metallo prezioso dalla Spagna al fronte fiammingo fu la grande quantità di moneta argentea coniata ad Anversa tra 1567 e 1569, nonché il notevole volume della circolazione monetaria nella Francia nord-orientale, dove finì in un primo momento gran parte dell’argento spagnolo.
D’altra parte, anche se la Corona era la grande responsabile della fuga dell’argento dalla Spagna, non ne fu l’unica. La crescita abnorme di moneta ruppe l’equilibrio economico del paese in quanto il sistema produttivo interno non fu in grado di aumentare il prodotto lordo nella misura in cui era aumentata la moneta in circolazione. Questo provocò una crescita dei prezzi e spinse all’acquisto di merci estere, quindi a una fuga di metallo prezioso fuori dalla Spagna. La situazione precipitò definitivamente nei primi anni del XVII secolo quando le colonie ibero-americane, che inizialmente dipendevano in tutto dalle importazioni della madre patria, acquistata un certa autonomia per i prodotti fondamentali iniziarono a richiedere prodotti più vari e più costosi: la Spagna non possedeva un sistema produttivo all’altezza di tali richieste e non fu in grado di tener testa al frenetico aumento della domanda, dovendo così rivolgersi all’estero per procurarsi i beni che le sue colonie chiedevano. Gli stessi esportatori spagnoli furono costretti a ricorrere a produttori stranieri a cui prestavano il loro nome onde evitare i divieti che colpivano gli stranieri nel commercio con le Indie. Il risultato fu che in poco tempo la Spagna si trovò a dipendere largamente dalle altre nazioni per le importazioni di tutte le merci, al di fuori di quelle primarie, che esportava nelle sue colonie.
Un altro punto su cui si è dibattuto è la grande circolazione dei reales de a ocho. Questa moneta risultava in effetti poco stabile in termini di peso, di pessimo gusto estetico, mal coniata e facile a tosarsi. Spesso ci si è chiesto come mai una moneta del genere fosse molto ricercata e accettata in ogni parte del globo e prontamente è apparso chiaro che la forza dei reales de a ocho consistesse essenzialmente nella loro enorme quantità. Fu proprio la loro quantità e la loro diffusione in ogni parte del mondo che permise lo straordinario sviluppo del commercio internazionale durante i secoli XVI e XVII. Il mantenimento di quei livelli raggiunti dal commercio internazionale dipendeva dal mantenimento della liquidità rappresentata dalla massa di reales iniettata allora nel mercato, quindi se questi fossero stati banditi e la loro massa conseguentemente diminuita, il commercio internazionale avrebbe subito un tracollo spaventoso.
[1] Anche se le circostanze della sua coniazione non sono chiarissime, si sa che la produzione partiva dalle colonie della Nueva España.