di Beatrice De Santis
L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.[1]
Molto frequentemente, l’uomo avverte la necessità di costruire delle credenze a cui aggrapparsi: esse rappresentano un porto sicuro, una certezza, un obiettivo ultimo verso cui orientare la propria rotta. Si pensi a quanto fossero importanti i miti e le leggende nel patrimonio culturale e tradizionale latino e greco e, anche se l’impatto si è notevolmente ridimensionato, a quanto lo siano ancora oggi. Diventa, talvolta, indispensabile – nell’inventario comune – possedere delle speranze con cui disegnare una nuova prospettiva.
Consultando l’Enciclopedia Treccani, si legge: «Eldorado s. m. – Nome dato dagli scopritori spagnoli a un paese immaginario dell’America Meridionale […] che si credeva favolosamente ricco d’oro e di pietre preziose».[2] Oggi il termine è entrato a far parte della vastità linguistica italiana ed è impiegato per delineare, genericamente, un luogo paradisiaco, prospero e rigoglioso.
Ma, per capire come si iniziò a parlare di Eldorado, occorre effettuare un passo indietro. Quando i colonizzatori, spagnoli in prima linea, iniziarono a perlustrare il Nuovo Mondo – con un atteggiamento che si potrebbe definire non dissimile a quello che, poi, a fine Settecento, verrà delineato con l’espressione Sturm und Drang e, cioè, di terrore e ammirazione insieme – dovettero affrontare molti problemi, non solo di natura logistica e organizzativa, ma anche psicologica e introspettiva. Occorreva, cioè, giustificare l’occupazione dei nuovi territori e invogliare i bianchi a credere nel profitto che quelle terre lontane e ignote avrebbero potuto apportare. Ecco, dunque, che di fronte all’impossibilità di produrre repentinamente ‘prove’ concrete, subentrò la leggenda. L’idea di una terra vergine, da sfruttare a proprio piacimento, iniziò ad allettare i conquistatori: fu così che le ricchezze dell’America diventarono protagoniste di un processo di mitizzazione.
La conformazione del territorio rivestì un ruolo fondamentale nella considerazione che quest’ultimo ottenne: le zone copiose di laghi, ad esempio, costituivano un luogo privilegiato e favorivano la formulazione di una vera e propria “geografia del sacro” attorno alla quale, in determinate circostanze, le popolazioni locali svolgevano riti di passaggio e cerimonie religiose. Le caratteristiche geomorfologiche rinvenute, che rendevano quei luoghi così diversi rispetto alla Madrepatria, incuriosirono fin da subito i colonizzatori. Furono soprattutto consuetudini di questo genere a dare un primo e forte contributo alla costruzione del mito dell’Eldorado.[3]
L’origine della leggenda è ambigua, le versioni a riguardo si accavallano e confondono. Una tra le ipotesi più accreditate è legata ad una cerimonia della cultura Muisca (popolazione che abitava l’attuale Colombia) secondo cui, lo Zipa, accompagnato dal suo popolo, si recava in una laguna con il corpo cosparso di resina e polvere d’oro. Poi, salito su una zattera, si immergeva nelle acque, lasciando affondare l’imbarcazione colma di oggetti d’oro in onore delle divinità. Sarebbe lui l’uomo d’oro, cioè el (hombre) dorado, da cui deriva la convinzione che esistesse un luogo nascosto, un tesoro da trovare.[4] Una seconda versione insiste proprio su quest’aspetto: «non fu un luogo […] bensì un uomo»[5]. Il punto di partenza è costituito sempre dalla cerimonia tipica del popolo Muisca che, una volta morto un capo, doveva eleggerne un altro tramite un rito propiziatorio che rappresentava la successione e la scelta del nuovo capo “dorato”. Il prescelto si presentava al popolo senza vesti, ricoperto di povere d’oro e, salito a bordo di una canoa, percorreva un lago: numerose versioni parlano del lago Guatavita (a nord di Bogotà) nel quale venivano dispersi oggetti preziosi. Da qui deriverebbe la frenesia dei colonizzatori, bramosi di reperire le ricchezze sprofondate nelle acque.
Una versione un po’ discostante dalle altre, invece, colloca l’origine del mito alla fine dell’impero Inca, facendo riferimento, in particolare, all’inganno ordito da Francisco Pizarro: egli, rapito Atahualpa, leggendario sovrano Inca, chiese al suo popolo un riscatto – costituito da un ricco bottino – che, una volta ottenuto, non gli impedì comunque di uccidere Atahualpa, contravvenendo, quindi, al patto. Quando la nave di Pizarro, carica d’oro, giunse in Spagna, si iniziò a ritenere che esistesse un luogo mitico dove gli Inca avevano nascosto le ricchezze per non lasciarle ai conquistatori.[6]
Per giungere in questo regno misterioso si organizzarono numerose spedizioni: la prima risale al 1541, quando, il governatore di Quito, Gonzalo Pizarro – fratellastro di Francisco – partì per le Ande, ma il suo viaggio si rivelò fallimentare. Molti altri condottieri spagnoli tentarono di nuovo la ricerca, senza alcun successo. Nel 1617 l’inglese Walter Raleigh si addentrò nella foresta amazzonica, senza scoprire nulla di nuovo. Nel 1772 il naturalista tedesco Alexander von Humboldt e il botanico Aimé Bonpland viaggiarono in Sud America senza rinvenire traccia del luogo fantastico. Molto più tardi, nel 1925, l’inglese Percy Fawcett, suo figlio e un amico di quest’ultimo, si recarono in Brasile: non trovarono alcun tesoro e, ben presto, si smarrirono anche le loro tracce.[7]
Il mito dell’Eldorado divenne un’ossessione. Molte titubanze riguardano anche il luogo in cui Eldorado sarebbe ubicato: si prende in considerazione un’area geografica molto ampia che va dalla Colombia al Perù, dal Perù all’Ecuador, fino alla Bolivia, al Brasile e al Venezuela. Questi viaggi furono onerosi in termini di vite, ma, nonostante ciò, la conquista a danno delle popolazioni indigene si sviluppò ugualmente, velocemente e con estrema violenza, soprattutto a causa del desiderio di arricchirsi a danno dell’altro. «Un Eldorado sfuggente, posto sempre più a oriente, o più a sud, e comunque sempre oltre il filo dell’orizzonte, man mano che le esplorazioni procedevano».[8]
Lo studioso Jago Cooper, in visita nel 2013 presso il Museo dell’Oro di Bogotà, in Colombia, ha escluso che la leggenda di Eldorado fosse incentrata su una città d’oro perduta: ad essere d’oro, per l’intellettuale, era un uomo.[9]
Il mito di Eldorado rende l’idea di quanto i conquistatori fossero smaniosi di accumulare ogni tipo di ricchezza, senza alcuna inibizione. L’avidità accecava a tal punto gli uomini, tanto da renderli crudeli e insensibili: erano disposti a tutto pur di raggiungere lo scopo prefissato. Ogni nuova spedizione comportava un insediamento; le popolazioni autoctone, private di ogni autonomia, vennero impiegate come forza lavoro nelle zone di estrazione. Poi, a partire dal XVI secolo, furono gradualmente sostituite dagli schiavi africani, ritenuti più idonei a svolgere lavori logoranti, senza sosta, con poco cibo e in condizioni igieniche inesistenti. Le condizioni disumane in cui riversavano gli schiavi, non incontravano la sensibilità dei bianchi (eccetto qualche rara eccezione, come dimostra l’esempio di B. De Las Casas): a nessuno importava la sofferenza altrui – soprattutto se di esseri ritenuti inutili pesas – sapendo che, poi, da quest’ultima sarebbero potuti scaturire ingenti guadagni.
Colombo, quando giunse nel Nuovo Mondo, dimostrò di proiettare costantemente le proprie strutture mentali su tutto ciò che vedeva e scopriva. Egli è in continuo movimento, scruta, indaga e, soprattutto, è alla ricerca di nuove ricchezze: «facevo attenzione e cercavo di comprendere se avessero dell’oro»[10]. In realtà, l’interesse dimostrato riguardo la possibilità di scoprire e accumulare oro, non concerne le sue aspettative, quanto quelle degli uomini che lo accompagnavano; Colombo, conscio del valore che la possibilità di accumulare beni costituiva per molti, se ne serviva come strumento di controllo che gli garantiva la continuazione dell’impresa. Il navigatore genovese interpretava la presenza di pappagalli come un segno dell’esistenza di abbondanti giacimenti auriferi, dal momento che, in una lettera, uno dei suoi corrispondenti, Jaime Ferrer, affermava che «la maggior parte delle cose buone vengono da terre molto calde ove gli abitanti sono negri o pappagalli»[11]. Inconsapevolmente, Colombo iniziò a costruire un nuovo mondo tramite la capacità di idearlo.
È interessante, per la costruzione e la definizione del mito, l’opera Eldorado nel pantano[12] in cui l’autore si sofferma sulle varie fasi del mito fino ad una delle ultime spedizioni, organizzata nella terra dei Mojos (attuale Bolivia orientale), luogo caratterizzato da pianure inondate, per molti mesi, dai fiumi. Giunti in questi luoghi, i colonizzatori trovarono gente poverissima che possedeva a malapena le risorse necessarie per sopravvivere. Come afferma Massimo Livi Bacci: «gli spagnoli cercavano l’oro e trovarono un pantano».[13]
L’Eldorado, infine, deve essere opportunamente inteso come un archetipo della conquista, nel senso che la collocazione e proiezione della sua esistenza nel Nuovo Mondo si incontravano con una duplice esigenza: da un lato, quella di giustificare il processo di sottomissione e schiavizzazione messo in atto dai conquistadores, che si sentivano legittimati a impossessarsi della presunta ricchezza altrui su basi antropologiche e dottrinali del tutto infondate, ma sostenute con vigore; dall’altro, quella di costruire un mondo coerente con la propria cultura e in grado di soddisfare la sete di ricchezza di quanti, partiti dalla madrepatria in cerca di prosperità, chiedevano un riscontro concreto. La curiosità nei confronti di questo luogo fantastico funzionò da incentivo, attirando avventurieri, esploratori, aristocratici e muovendo copiosi finanziamenti di viaggi progettati proprio col fine di trovare la sede di Eldorado.[14]
Il mito, infine, è divenuto tanto famoso da ispirare la cinematografia contemporanea: tantissimi film raccontano l’ambivalenza di un sogno dai confini labili, vano e affascinante allo stesso tempo.
[1] Eduardo Galeano
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/eldorado/[3] Palacios Marco, Safford Frank, Colombia país fragmentado, sociedad dividida. Su historia, Editorial Norma, 2002, p. 42.
[4] La cultura Muisca ebbe come epicentro la Cordigliera Orientale delle Ande colombiane. Per termini come Zipa cfr. Palacios M., Safford F., Colombia país fragmentado, sociedad dividida. Su historia, Editorial Norma, 2002, p. 43.
[5] Coricelli Michela, su Avvenire, 18 marzo 2013.
[6] https://www.sapere.it/sapere/approfondimenti/storia/antichi-imperi-america/civilta-delle-ande/incas/incas-eldorado.html[7] Coricelli Michela, cit. su Avvenire.
[8] Livi Bacci Massimo, Eldorado nel pantano, Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, il Mulino, 2008, p.8.
[9] https://www.bbc.com/news/av/magazine-20978224[10] Todorov Cvetan, La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, Einaudi, 1998, p. 29.
[11] Ibidem.
[12] Livi Bacci Massimo, Eldorado nel pantano, Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, il Mulino, 2008.
[13] Ivi, p. 8.
[14] Von Hagen Victor, L’eldorado, sulle tracce dell’uomo d’oro, introduzione, Rizzoli, 2000.