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La battaglia di Lissa: una ferita ancora aperta

Il contatto tra le due flotte a Lissa

di Federico Battaglia

“Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”. Con queste parole, l’ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff commentò la conclusione di uno degli scontri più significativi del XIX secolo: la battaglia di Lissa. Combattuta nel luglio del 1866, vide contrapposte le navi dell’Impero austriaco, guidate dallo stesso Tegetthoff, a quelle italiane, agli ordini dell’ufficiale Carlo Pellion di Persano. Il combattimento nelle acque del mare Adriatico fu determinante per diversi aspetti, in particolar modo per la situazione geopolitica italiana. Dopo Lissa, infatti, il Regno dei Savoia riuscì ad annettere il Veneto, strappandolo dalle mani dell’imperatore asburgico Francesco Giuseppe. Una svolta, questa, a dir poco paradossale, considerando che il 20 luglio 1866 la Regia Marina rimediò una sonora disfatta.

Carlo Pellion di Persano e Wilhelm von Tegetthof

Per entrambe le nazioni, il conflitto del 1866 fu la diretta conseguenza di uno stato di ostilità che persisteva da tempo. Il Regno d’Italia, appena costituitosi da cinque anni, aveva sempre visto l’Austria come un ostacolo al pieno raggiungimento dell’unità nazionale. A partire dal 1861, gli sforzi della classe politica nazionale furono incentrati soprattutto su questo aspetto. Si iniziò, infatti, a discutere su come poter affrontare un’eventuale guerra contro l’Austria, nel caso questa si fosse opposta alle richieste governative sulle regioni nord-orientali. Immediatamente, furono stanziati parecchi fondi per potenziare e, quantomeno, perfezionare il sistema di arruolamento e quello di addestramento dell’esercito e della marina. Vennero creati numerosi battaglioni, fu introdotto un codice militare univoco e si procedette con il pieno accorpamento di tutte le forze armate che, in precedenza, avevano fatto parte degli stati preunitari.

Appoggiati dal re Vittorio Emanuele II, gli esecutivi che si susseguirono tra il 1861 e il 1866 tennero in forte considerazione il capitolo delle spese militari anche se, in alcuni frangenti, le decisioni prese si dimostrarono più deleterie che vantaggiose per lo sforzo bellico, specialmente quelle dirette alla Regia Marina.

Secondo i confini dell’epoca, un possibile conflitto contro Vienna si sarebbe dovuto combattere in due differenti teatri di guerra, uno terrestre e uno marittimo: sul fiume Mincio e nei pressi di Ferrara per le forze di terra e nel Mar Adriatico per le forze di mare. La conquista di Venezia, o di qualche isola della Dalmazia, doveva inevitabilmente passare per il controllo delle acque antistanti le coste adriatiche. Pertanto, i ministri della Marina si attivarono per presentarsi alla prova contro la flotta asburgica nel migliore dei modi. Non essendoci degli adeguati cantieri marittimi in tutto il paese, i funzionari del re optarono per ordinare la maggior parte delle imbarcazioni all’estero, principalmente in Francia e negli Sati Uniti.

Nei primi anni Sessanta dell’Ottocento l’architettura navale stava attraversando un periodo di forti cambiamenti. Dopo la battaglia di Hampton Roads del 1862, l’acciaio si era definitivamente sostituito al legno e, in tutto il mondo, incominciavano ad essere varate nuove tipologie di navi da guerra, rivestite da strati resistenti e mosse dalla forza del vapore. Senza perdere tempo, alle Camere venne approntato un cospicuo piano di commissioni militari, da consegnare ai costruttori stranieri. L’intento era quello di armare un’efficiente squadra navale nel più breve tempo possibile, attendendo, poi, una svolta sul piano diplomatico.

Tale svolta arrivò con la rottura dei rapporti austro-prussiani. Da sempre rivali nel contendersi l’appoggio degli stati germanici, le potenze centrali entrarono in rotta di collisione agli inizi del 1866. Avvalendosi della situazione favorevole che si era venuta a creare, il governo italiano accolse il progetto del primo ministro prussiano Otto von Bismarck che aveva proposto un’alleanza temporanea, in modo da imbastire un duplice attacco contro l’avversario in comune. L’intesa italo-prussiana venne siglata nell’aprile del 1866 e, nemmeno due mesi dopo, scoppiò quello scontro che sarebbe entrato nell’immaginario comune della penisola come “Terza guerra d’indipendenza”.

Le truppe italiane, con a capo il generale piemontese Alfonso La Marmora, invasero il Veneto austriaco, oltrepassando il Mincio e riversandosi in tutto il territorio nemico. La flotta, invece, venne inviata nell’Adriatico con il compito di aspettare un eventuale ordine di attacco contro il litorale asburgico. Tolta la caotica partenza dai porti liguri e campani, le navi del Regno d’Italia riuscirono comunque a raggiungere Ancona, dopo aver fatto scalo a Taranto. Nel porto marchigiano si ritrovarono imbarcazioni di tutti i tipi: oltre ai vascelli ancora in legno degli anni passati, erano ormeggiate le ultime novità in fatto di ingegneria navale: le pirofregate corazzate. La maggior parte di esse proveniva o da cantieri americani, come la Re d’Italia, o da cantieri francesi, come la San Martino.

La squadra navale stazionò ad Ancona per un totale di venticinque giorni, senza intercettare il nemico. Al di là di qualche incursione, compresa quella del 6 luglio, la flotta austriaca non sfidò mai apertamente l’ammiraglio Persano che si ritrovò ad inseguire il nemico e a tentare anch’esso qualche inutile sortita. Nonostante la precedente sconfitta per terra, a Custoza, vicino Verona, l’Alto Comando militare non definì mai un chiaro programma di intervento per la marina, almeno fino a quando non giunse voce di una possibile tregua tra Prussia e Austria, quest’ultima in procinto di arrendersi dopo la disfatta del suo esercito a Sadowa. All’improvviso, diventò necessario attaccar battaglia per ottenere un successo risolutivo.

In accordo con il re, lo Stato Maggiore ordinò a Persano di muovere la squadra navale e di condurla alla conquista di Lissa, nuovo obbiettivo strategico. L’isola a largo di Spalato, in Dalmazia, venne raggiunta e subito bombardata da parte della Regia Marina che, dopo due giorni di intensi cannoneggiamenti, si preparò a far sbarcare dei reparti di fanteria. Tale operazione dovette però essere rimandata per l’arrivo improvviso della flotta austriaca, inviata da Vienna per portare soccorso alla guarnigione assediata. Le due formazioni nemiche entrarono in contatto nella giornata del 20 luglio, più precisamente alle dieci e quarantacinque.

Sin dai primi momenti, lo scontro si dimostrò molto disordinato: per via degli apparati motori delle navi e dalle salve di artiglieria si creò un’intensa cortina di fumo che andò a peggiorare drasticamente la visibilità. Tegetthoff, il quale era riuscito ad insinuarsi tra le due principali divisioni nemiche, si servì dello scompiglio per lanciare la sua ammiraglia, la Ferdinand Max, contro la Re d’Italia, speronandola in pieno e affondandola nel giro di pochi minuti. Nemmeno un’ora dopo venne la volta della Palestro, circondata e presa d’assalto da più imbarcazioni nemiche. La cannoniera si sarebbe inabissata in seguito all’esplosione del deposito munizioni, raggiunto dalle fiamme di uno dei tanti incendi divampati a bordo. Con due navi perse e con seicento morti, l’ammiraglio Persano dovette abbandonare Lissa nelle mani di Tegetthoff, uscito vincitore malgrado l’inferiorità numerica della sua formazione.

L’affondamento della cannoniera Palestro

Rientrato ad Ancona, Persano fu aspramente criticato per la sua condotta durante il combattimento. Secondo i funzionari governativi, l’ammiraglio era incappato in un errore gravissimo: l’aver deciso di trasbordare, poco prima di iniziare lo scontro, dalla Re d’Italia sull’Affondatore, facendo sì che si creasse un intervallo di 1.500 metri nella squadra italiana. Le conseguenze di un simile gesto avrebbero, in primo luogo, agevolato le mosse del nemico e, in secondo luogo, creato confusione al comando.

Gli errori di tattica e di preparazione navale commessi dall’ammiraglio non furono, tuttavia, la sola causa della débâcle nell’Adriatico. Il raggruppamento della Regia Marina era stato allestito in condizioni pessime dal punto di vista organizzativo. Il mancato addestramento degli equipaggi e l’eterogeneità delle navi destinate a prender parte alla campagna militare influirono sin da subito sull’esito della guerra marittima contro gli Asburgo. E di ciò non poteva essere condannato Carlo Pellion di Persano ma i suoi superiori.

A tutti gli effetti, i ministri del quinquennio 1861-1866 non furono capaci di completare un valido progetto di miglioramento. Gli impianti portuali, compreso quello anconetano, non furono debitamente valutati, senza parlare degli ordini inoltrati negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia. Si commissionarono le navi più sofisticate ma non si pensò ad istruire i marinai al loro utilizzo e alle manovre più indicate per impiegarle in battaglia. Lissa fu, quindi, l’ultimo tassello di una politica navale incoerente e poco elaborata.

Nonostante la duplice sconfitta, per terra e per mare, i Savoia ottennero il Veneto, approfittando del tracollo austriaco contro l’alleato prussiano. Inaspettatamente, la vittoria non venne celebrata dal popolo italiano. Non furono inscenati grandi festeggiamenti per l’acquisizione di Venezia, a testimonianza del fatto che il conflitto appena concluso aveva disatteso completamente le aspettative. L’Italia con più uomini e con più navi non era stata in grado di battere sul campo un avversario impegnato su due fronti. Questo avrebbe contribuito a far nascere quel mito della “guerra perduta e vinta del 1866” che di lì a poco sarebbe diventato un elemento deterrente per l’orgoglio di tutto il paese.