di Alfonso Martino
Uno dei registi più talentuosi degli ultimi anni è sicuramente l’inglese Edgar Wright, esploso grazie alla trilogia del Cornetto (Shaun of the Dead, Hot Fuzz e The World’s End), in cui si mischiavano british humour e citazioni di registi horror come Romero.
Dopo l’ottimo Baby Driver, in cui il regista mostra ancor di più le sue capacità dietro la macchina da presa spingendo sul filone action e lasciando il lato comedy sullo sfondo, è uscito Last Night in Soho, pellicola inizialmente prevista lo scorso anno e che è stata rimandata causa pandemia.
Il film vede protagonista Eloise (Thomasin McKenzie) ragazza di campagna amante degli anni ’60 che sogna di diventare una fashion designer e per questo decide di trasferirsi a Londra, co-protagonista silenziosa che le si mostra ostile fin da subito, a partire dalle sequenze nello studentato fino al monolocale di Soho, quasi sempre ripreso di notte come gran parte della metropoli, luogo di demoni e visioni.
L’onirismo è la base su cui poggia la pellicola, poiché la protagonista durante la notte sogna di essere Sandie (Anya Taylor Joy), aspirante attrice nella Londra degli anni ’60.
Queste scene colpiscono lo spettatore, dal momento che il dualismo tra Eloise e Sandie è perfetto non solo per Soho, che in queste sequenze acquisisce nuova vita, ma anche grazie allo stratagemma dello specchio in cui vediamo la prima sullo sfondo;
l’espediente culmina nella scena del ballo, in cui il regista riesce a mostrare entrambe in un momento frenetico senza movimenti vertiginosi, in cui le due si dividono la scena insieme a Jack (Matt Smith).
Il film si potrebbe dividere in due grandi blocchi: il primo, che comprende più o meno la prima ora, è tecnicamente perfetto e si ha la sensazione che Wright tenga saldamente il controllo della sua creatura, attraverso una narrazione che mostra dei buchi ma che viene mascherata dalle atmosfere che omaggiano Dario Argento (impossibile non pensare a Suspiria nelle sequenze dominate dalle luci al neon rosso e blu), mentre nella seconda sembra di vedere un altro film, in cui la vena thriller prende il sopravvento e la sceneggiatura zoppicante emerge definitivamente.
Nella prima parte vengono accennate tematiche che ci si aspetta vengano approfondite in maniera maggiore, come ad esempio la schizofrenia e la voglia della protagonista di abbandonarsi ai demoni della grande città (sequenza del pub) ma nella seconda questi spunti vengono abbandonati, lasciando il posto alle classiche indagini tipiche dei thriller per comprendere il legame tra Eloise e Sandie, inserendo allo stesso tempo tematiche forti come quelle del femminicidio e le difficoltà di una donna ad emergere in un mondo, quello dello spettacolo, fortemente maschilista, rappresentata dal personaggio di Smith. Inoltre, se nella prima la regia è solida e priva di sbavature, nella seconda ci troviamo davanti a scene che non sembrano girate dallo stesso regista: una su tutte, quella dello spiegone finale, ormai onnipresente e che lascia interdetti sia dal punto di vista visivo che da quello narrativo.
Il finale chiude in maniera coerente la vicenda, lasciando però l’amaro in bocca sia per l’happy ending che per l’occasione sprecata rappresentata dalla prima parte, la quale mostra le grandi capacità di Wright e allo stesso tempo il rimpianto per una storia che poteva essere raccontata in maniera dignitosa dall’inizio alla fine.