Intervista ad Andrea Donaera

Credits Dino Ignani

a cura di Adele Errico

Lei che non tocca mai terra è una fiaba oscura. Ogni fiaba ha degli aspetti oscuri che lasciano addosso un senso di orrore profondo, arcano. Cosa ti affascina di più delle fiabe? Soprattutto delle due fiabe che fanno da “sottofondo” ai tuoi due romanzi?

Mi affascina proprio questa profondità di cui parli: come se fossero narrazioni collettive, iniettate sottopelle sin dalla nascita – viene da pensare che ogni umano sia connotato da una qualche ghiandola pineale all’interno della quale risiede un database di fiabe che avremo per sempre al nostro interno. Qualcosa del genere. Ma insomma: vicende come La bella e la bestia o La bella addormentata nel bosco ci riguardano un po’ tutti, in qualche modo, a mio parere. Ci si può sentire Belle o Bestia; ci si può sentire addormentai in attesa di essere svegliati o figure salvatrici dotate di baci portentosi – o, se si pensa alle versioni disneyane di queste storie, ci si può sentire Malefica, o Gaston, rosi dall’invidia e dal disamore (a me capita spessissimo). Poi, va be’, c’è un dato di realtà biografico che non mi fa uscire fuori dal sistema narrativo fiabesco: il primo libro che mi è stato letto (e poi il primo libro che ho letto da solo) è stato Pinocchio, dalla voce di mio padre. Da quando mio padre è morto torno spesso a quelle pagine, perché avviene un processo necro(ro)mantico: è come se riemergesse la sua voce. La fiaba, dunque, per me, corrisponde a un atto di rievocazione spiritica. Ma è ’na cosa mia, me ne rendo conto – che sembra pure un bel po’ strana, forse.  

Il principe delle fiabe sveglia la principessa addormentata con un bacio. Andrea cerca di farlo con un incessante parlare. Che ruolo ricopre la parola, la voce, in Lei che non tocca mai terra?

In questa storia non c’è il principe (nel senso: non una figura eletta, superiore), ma una sorta di ragazzo qualunque, pieno di buchi e di vuoti, di traumi e di ossessioni: tra queste ossessioni c’è anche la ricerca di una qualche “principessa” da salvare, convinto che lei possa renderlo – da sveglia, da salva – finalmente un uomo platonicamente completo (ignorando che però l’amore non riunisce due anime: l’amore ti spacca in due). Dunque, in realtà, è il “principe” che vuole salvare sé stesso attraverso l’allestimento di uno pseudo-atto eroico. Andrea si convince che Miriam, una volta sveglia (salvata) potrà riempire i suoi vuoti, lenire i suoi traumi, ma è una convinzione ossessiva, un piegare la realtà esteriore verso un disegno mentale interiore che non ha un riscontro concreto. Per mettere in moto questo meccanismo (perverso?) dove lui può finalmente avere un ruolo nel mondo (quello del salvatore), Andrea utilizza il linguaggio, la voce. Questo perché, a mio parere, il suo innamoramento è effettivamente vero e onesto, al netto di tutto il torbido processo intrapsichico che lo produce e precede: e l’amore, vero e onesto, se ci pensiamo bene, si concretizza solo nell’incontro di linguaggi e di voci. Io capisco la tua voce, io capisco il tuo linguaggio: e tu capisci la mia voce, capisci il mio linguaggio. È in questo flusso di lingue che si toccano (similmente a un bacio senza bocche) che si verifica l’atto dell’amore: e Andrea vuole il linguaggio di Miriam, per capirla di nuovo – e vuole darle il suo linguaggio, per essere capito. E dunque lui parla: non ha altro, forse, non può fare altro.

C’è un personaggio del quale si è parlato poco ma che credo sia uno dei più affascinanti di tutto il romanzo. La madre di Andrea. Le madri dei tuoi romanzi (penso a Marta, a Mara) sono madri dure, rigide, ruvide, legnose. E la madre di Andrea?

La madre di Andrea, nella mia testa, non esiste. Nella mia testa lui vive da solo, è orfano di entrambi genitori. La madre di cui parla è un fantasma che lui vede lì immobile sul divano, nello stesso posto dove il padre si tolse la vita anni prima: ma la psiche di Andrea si rifiuta di concepire anche la madre come morta, non riesce a reggere questa ulteriore assenza, e dunque la ricrea in maniera immaginaria ma vivissima – ne parla come un «cadavere indecomposto», nella testa di Andrea è tutto un proliferare di mostri di Frankenstein. Ma questa è una interpretazione mia, che non ho voluto far emergere nella versione finale del romanzo – e non so quanto possa essere utile esplicitare, ma ormai l’ho fatto, e va be’.

Conosco solo un altro autore che descrive gli occhi come fai tu e che sembra affidare a questa parte del corpo la sede dell’anima ed è William Faulkner. Cosa c’è negli occhi di Andrea? Cosa negli occhi (chiusi) di Miriam?

La parte del corpo più clamorosamente espressiva degli esseri umani è quella: gli occhi. E se stai scrivendo una storia in cui degli esseri umani vivono alcune emozioni che vanno trasmesse a chi legge, cosa puoi fare? Beh, per me l’unica strada è descrivere/raccontare gli occhi. Gli occhi di Andrea sono troppo pieni, c’è una rete, un groviglio, di cui lui è conscio e che infatti prova a districare, anche goffamente e inquietantemente tramite l’amore che ha costruito per Miriam. Gli occhi di Miriam – oltre a essere bellissimi (cosa c’è di più incredibile degli occhi chiari?) – sono il sintomo di una lotta, sono magmatici (di un magma azzurro, metafisico), vogliono piangere, vogliono aprirsi: e tutto questo già prima del suo coma. Insomma, se guardi una persona negli occhi può succedere di tutto: puoi anche finire per desiderare di essere guardato – e di guardare – quel colore lì per quanto più tempo possibile (e credo che anche questa faccenda, in ultima analisi, finiamo per chiamarla “amore”).

Andrea e Veli. A mio parere hanno dei tratti in comune, sono entrambi coraggiosi, entrambi innamorati. In cosa si distinguono l’uno dall’altro? Esiste una versione migliore dell’altra?

Dopo l’adolescenza c’è un’età che non chiamiamo in nessun modo. Quel periodo tra i venti e i trent’anni, più o meno, dove si sente l’impulso di cambiare, di rivoluzionare il proprio status (anche se, specialmente nella mia/nostra generazione, questo periodo è divenuto decisamente più lungo). Veli e Andrea sono lì, ma devono fare i conti con un bel po’ di casini che sono capitati nelle loro vite. Le loro sono storie che meritano di essere raccontate, a mio parere: perché sono davvero nei guai, e quando si è davvero nei guai succede sempre qualcosa che, nel tempo, diventerà un materiale degno di essere narrato. Non credo siano coraggiosi: credo siano disperati – ed è un processo che biograficamente conosco bene, quello di compiere gesti che da fuori possono sembrare coraggiosi, ma che alla fine sono soltanto dettati dalla disperazione e rispondono all’istinto primordiale di volersi salvare la vita (attività dignitosissima, quest’ultima!). Veli e Andrea vogliono salvare una donna che amano: ma lo vogliono fare per salvare sé stessi, principalmente. Questo non li rende coraggiosi, ma senza dubbio li rende davvero innamorati, nell’accezione più luminosa del termine – e questo, forse, alla fine, è meglio del coraggio.

Il tuo cattivo, Papa Nanni, è un personaggio costruito, immaginato, inventato con grande cura. Sembra realmente incarnare il Male. Ci sono dei cattivi – nella letteratura, nel cinema, nelle serie tv – che ti piacciono particolarmente?

Ce ne sono moltissimi! Papa Nanni, fisiognomicamente, è costruito sulla base di un cattivo letterario/cinematografico proveniente dall’immaginazione di uno dei miei autori preferiti, cioè J.R.R. Tolkien: lo stregone Saruman de Il Signore degli Anelli. Naturalmente mi appassiono con grande intensità ai cattivi costituiti da un épos, da un passato ben articolato dal quale provengono e nel quale risiedono le ragioni profonde del loro agire (quante volte, nella vita, rischiamo di diventare cattivi a causa del nostro passato?). E dunque amo molto la figura di Lord Voldemort della saga di J.K. Rowling Harry Potter, così come quella di BOB della serie tv Twin Peaks realizzata da David Lynch. Anche un altro cattivo estremamente formativo, per me, proviene dalla serialità televisiva: Walter White di Breaking Bad, un personaggio così ambiguo che fa molto strano definirlo nettamente “cattivo”. Tornando alla letteratura, credo ci siano cattivi meravigliosi in quei testi dove convivono diversi gradi di realtà: Woland, ne Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov; il pianeta Solaris nell’omonimo romanzo di Stanislaw Lem; Dio nell’Antico Testamento de La Bibbia. Cose così.

Andrea Donaera, Lei che non tocca mai terra. Un coro di voci che cantano d’amore.

Recensione di Adele Errico

Milan Kundera sosteneva che i suoi personaggi non nascevano certo da un grembo materno e che la sua Tereza fosse nata dal brontolio di uno stomaco. Quel brontolio è l’elemento che scatena l’azione, il dettaglio che racchiude il più profondo significato della storia, il sintomo di una fame che anticipa un incontro che non sazia la pancia ma l’animo.  In Lei che non tocca mai terra, il secondo romanzo di Andrea Donaera, Miriam nasce da un sonno: è addormentata perché è in coma. Il sonno di Miriam ha la stessa funzione del brontolio del ventre di Tereza: è la scintilla che provoca l’incendio. E anche Andrea – e tutti gli altri personaggi – nascono dal suo sonno perché è il suo coma a infondere negli altri la voce e senza di lei e senza il suo dormire tutto l’universo di questo romanzo non esisterebbe e tutte le figure che le ruotano intorno comincerebbero a scomparire, a dissolversi a una a una attorno al suo letto. Miriam è il centro dal quale si diramano gli altri personaggi, il filo che li tiene legati. In questo romanzo corale, infatti, ogni personaggio sembra staccato dagli altri, sembra avere vita propria, sembra dotato di una propria autonomia e relegato nel proprio isolamento. Ognuno nella propria torre, ognuno nella propria gabbia dalla quale uscirà solo per recarsi al letto di Miriam per parlarle e prendere parte ad un vortice di voci che si alternano e poi si incontrano e si scontrano per costituire un coro dissonante in cui le uniche voci che si fondono veramente sono quelle di Miriam e Andrea: Andrea è seduto accanto a lei, al suo corpo immobile e le parla. La sua è una parola che Bachtin definirebbe “bivoca”, “parola a due voci”, che ha, dunque, natura dialogica e duplice direzionalità: nasce, all’interno del dialogo, come replica viva. La parola bivoca ha la funzione di evocare e si prepara a una possibile risposta che prende forma nell’immaginazione dell’enunciatore. E infatti Andrea è il solo a dialogare con Miriam, a ottenere delle risposte, risposte possibili, risposte plausibili, di una Miriam che forse è quella da lui sognata, da lui pensata, che ha preso forma nella sua mente a seguito di quel primo incontro, di quel primo appuntamento al termine del quale il numero di Andrea sarà memorizzato sul cellulare di Miriam sotto il nome di “Andrea o Andrea”, risultato di un curioso anagramma ma che, poi, forse, suggerisce qualcosa di più. Come se esistesse un Andrea prima di Miriam e un Andrea dopo Miriam, un Andrea prima dell’amore e un Andrea dopo l’amore. “E l’amore ti spezza. Tu sei intero e poi ti apri in due” scriveva Philip Roth nel romanzo L’animale morente, cercando di sfatare il mito della platonica unione delle anime.

Ma prima dell’amore Andrea non era certo intero: non era intero prima di incontrare Miriam, prima di spiarla dalla finestra mentre comprava i libri nella libreria di fronte al suo palazzo. Non era certo intero mentre leggeva le poesie a una madre che è “malata di vuoto”, che è un “livido enorme con gli occhi”, “cadavere indecomposto” che ha assunto lo stesso colore del divano nel quale è insabbiata da dieci anni riempiendo la stessa forma lasciata da suo padre il giorno in cui si è sparato un colpo in testa. Allora per Andrea è il contrario: Miriam non lo spezza, non si introduce nella sua interezza frantumandola ma rimargina il suo essere dilaniato da un dolore che gli ha riempito il corpo come mille spilli.

Ora Miriam è come congelata, come palpitante dentro una lastra di ghiaccio che, forse, può sciogliersi solo con il calore dell’alito delle persone che le parlano intorno, le parlano addosso, con il calore delle loro bocche che pronunciano parole. Alcune sono parole di dolore. Esiste un dolore in questo romanzo che pesa “seimila miliardi di miliardi di tonnellate”. È il dolore di un bambino che, mentre fa i compiti nella sua cameretta, sente uno sparo nella stanza accanto e da quel momento suo padre non ci sarà più. È il dolore di una moglie che dal momento di quello sparo non si è più alzata dal divano e “le si è fatta di un colore strano, la pelle”. È il dolore di una madre “lunga e rugosa” che sembra lei stessa tutta un dolore, sembra fatta di dolore, sembra lo sputo di un dolore immenso, una donna che ha già perso una sorella e sta al capezzale della propria figlia a raccontarle di un “destino di dolore e di lacrime”. È il dolore di un padre che ama la figlia dal momento in cui ha aperto gli occhi, che “si capiva subitu ca poi diventavi bellissima”. È quello di un’amica che è lontana ma che pensa incessantemente a Miriam, così, addormentata, e lei invece non può dormire, “che dormire senza pensare a te è proprio difficile, è proprio una cosa che stanca”.  

Ma questo romanzo non è un romanzo di dolore. È un romanzo d’amore:

“Penso che il mio, se tu non ti svegli, Miriam, è un amore che si può soltanto percepire. Non toccare, non vedere, non fare. Un amore che non tocca mai terra. Se non ti svegli”.

L’amore di Andrea ha bisogno che Miriam si svegli per poter esistere. Miriam deve ritornare perché l’amore di Andrea è un amore fatto di “ancora”. Ancora la sua voce, ancora la sua bocca che brucia, ancora le sue canzoni. Un ancora che possa smentire il fatto che “nessuno torna mai”, un ancora che è anche àncora a cui tenersi (“Ci sono io. Tieniti a me”), che è solida, che non va via, che ritorna. Ancora i suoi occhi, gli occhi di Miriam che sono chiusi, ma dietro le palpebre chiuse sono i più belli che si siano mai visti, sono “bellissimi e devastati”, “come se dietro c’è fisso un dolore”, in quegli occhi “sembra che tiene il mare dentru”, il mare che ora non è più azzurro ma è il mare che la culla, nel quale sta sospesa come se galleggiasse dentro acqua livida, mare che si è fatto magma nero come gli occhi di Papa Nanni, come il Male che questo personaggio rappresenta. Papa Nanni è il solo personaggio non “parlante”, non ha voce autonoma, come gli altri, ma vive nelle voci e nelle narrazioni altrui. Non ha una voce eppure è presenza ingombrante, aleggia su tutta la vicenda perché è il Male che rappresenta ad aleggiare, a imporsi sulle vite dei personaggi, a ostacolare le loro azioni, un Male che si nasconde dentro un mistero che si districa nell’alternarsi delle voci, un mistero che ha origini lontane, radicato nel passato ma vivo nel presente, che riguarda due Miriam diverse ma uguali, con gli stessi occhi e lo stesso spazio tra i denti. Ma per quanto potente e ingombrante sia, al personaggio di Papa Nanni manca qualcosa che, invece, gli altri personaggi hanno, qualcosa che rischiara il bosco oscuro in cui ciascuno si muove, un bosco interiore che può essere illuminato solo da quel qualcosa che a Papa Nanni manca. È l’amore. Le parole d’amore che i personaggi rivolgono a Miriam sono la sola medicina, la sola cura che può riportarla alla vita (amore e vita non sono forse la stessa cosa? Andrea non ha forse iniziato a sentirsi vivo da quando ha iniziato ad amare Miriam?). Papa Nanni, il Male che è in lui, mette in pericolo le esistenze di queste voci, le loro coscienze, le confonde e le minaccia, le irretisce e le ferisce. “Ma l’amore è più forte del Male. No?”.

C’è qualcosa che trema in questo libro.
Trema Mara di rabbia di fronte a Papa Nanni.
Trema Gabry di commozione mentre registra le sessioni di talking cure per la sua migliore amica.
Tremano le mani di Lucio e trema la sua voce mentre parla come può e come sa, in un italiano un po’ strano pieno di “u”, alla figlia in coma.
Tremano le pupille di Andrea mentre è sopraffatto dall’emozione di fronte al volto immobile di Miriam addormentata.
Il buio trema.

“La luce trema. O forse sei tu”.

Tremi tu che il romanzo lo leggi.