Alfonso Martino
I David di Donatello di quest’anno hanno visto scontrarsi per il miglior attore protagonista due dei pesi massimi del nostro cinema: da una parte Pierfrancesco Favino che ha interpretato Craxi in Hammamet – riportandolo fedelmente sia dal punto di vista visivo che negli atteggiamenti – dall’altra Elio Germano, protagonista di Volevo Nascondermi in cui interpreta il pittore Antonio Ligabue, ricreando il suo modo di parlare a metà tra lo svizzero e il dialetto bolognese e dando al personaggio quell’alone di solitudine e sregolatezza che l’ha caratterizzato.
Il premio alla fine è andato a Germano, il quale traina tutta la pellicola di Giorgio Diritti, che doveva uscire in sala lo scorso anno e che è stata riproposta ora dopo la vittoria ai David di miglior film, regia, fotografia e miglior attore protagonista.
Sul versante tecnico, il film mostra pochissime sbavature, dal momento che la macchina da presa segue in maniera precisa la struttura in atti della sceneggiatura, riportando sullo schermo i diversi periodi della vita del pittore: nella prima parte la scena è caratterizzata da colori cupi e inquadrature strette, in cui vediamo l’infanzia di Ligabue in Svizzera, circondato da un ambiente familiare freddo come le sequenze mostrate dal regista, che si concentra anche sul bullismo che subirà il pittore a scuola, dando allo spettatore la sensazione di assistere al trattamento riservato al Joker di Joaquin Phoenix per come viene trattata la tematica del diverso all’interno della società. La regia enfatizza lo straniamento e il modo di vedere la vita di Ligabue grazie ad alcune inquadrature leggermente sfocate ai lati.
Nella seconda parte, il film si concentra sul riconoscimento che ottiene il pittore per il suo lavoro prima all’interno di un comune emiliano e successivamente a livello nazionale. Elio Germano dal punto di vista fisico si mostra costantemente curvo, accentuando lo stare rannicchiato del pittore e l’essere poco incline al contatto fisico per via della sua infanzia, come dimostrano le scene in cui mangia da solo al ristorante.
Il trattamento riservato a Ligabue in Italia non si discosta tanto da quello della prima parte in Svizzera, con la differenza che la regia di Diritti utilizza una luce più calda e inquadrature più ampie, che ovattano la percezione della massa nei confronti del pittore, apprezzato soltanto per via del suo successo. Lo spirito libero del protagonista è caratterizzato dalle sue opere a sfondo naturale e dalla sua passione per i motori, come dimostrano le sequenze che vedono Ligabue alla guida della sua motocicletta rossa sulle colline emiliane.
Nell’ultima parte ritornano i colori freddi della prima parte, in particolare il blu, per un finale che viene tirato per le lunghe, con una sequenza che si distacca dal contesto stilistico scelto dal regista durante tutta l’opera e che lascia un po’ di rimpianto per un biopic che si esprime in maniera coraggiosa su come viene affrontato il diverso all’interno della società e che poteva essere asciugato di una buona mezz’ora, date le due ore piene di minutaggio.