35 millimetri

Minari: scegli tra la famiglia e i tuoi sogni

Alfonso Martino

L’American Dream è un tema ricorrente nella società occidentale e un tipo di narrazione che riesce a coinvolgere anche individui lontani da questo stile di vita.
Si può ritrovare tutto ciò in Minari, film di Lee Isaac Chung prodotto dalla A24 e dalla Plan B – casa di produzione di Brad Pitt – che ha ottenuto sei nomination agli ultimi Oscar, portando a casa quello per la miglior attrice non protagonista, andato a Yoon Yeo-Jeong.

La pellicola vede protagonista una famiglia coreana trapiantata da diverso tempo in America che decide di spostarsi dalla California all’Arkansas. Il trasloco è fortemente voluto dal capofamiglia Jacob, simbolo di quel sogno americano citato in precedenza e in cui crede fortemente, dal momento che spende i risparmi di una vita per realizzare il suo sogno: comprare un grande appezzamento di terra e coltivare prodotti tipici coreani.

L’ambizione del protagonista si scontra con coloro che sono legati all’uomo da un filo invisibile: la sua famiglia. Fin dall’arrivo nella nuova casa, di cui il regista mostra lo stato fatiscente e il suo poggiarsi su delle ruote piuttosto che su un terreno, la moglie Monica mostra segnali d’insofferenza e sfiducia per una scelta considerata da lei troppo azzardata. La difficoltà di questa nuova vita viene accentuata nella sequenza in cui la famiglia entra in casa, con la macchina da presa che si concentra sulla mancanza di scalini che permettano di avvicinarsi alla porta.

I distributori sono riusciti a veicolare il messaggio che Minari sia una sorta di sequel spirituale del Parasite di Bong Joon-Ho, ma esiste una grande differenza tra i due film: quello di Chung è interpretato da attori coreani ma si svolge in America e racconta una storia fortemente occidentale, mentre il secondo è indirizzato alla società coreana e alle sue disparità.

Tra i temi trattati dal regista troviamo la famiglia e la religione: i protagonisti sono dipendenti dalla figura di Jacob, il quale si ritroverà a condividere la sua autorità con Soonja, madre di Monica arrivata dalla Corea per mantenere unita la famiglia e che porterà quella cultura e gli atteggiamenti dimenticati dal nucleo familiare.

Il Minari che dà il nome al film è una pianta coreana che cresce a ridosso degli ambienti umidi, come ad esempio torrenti o laghi; quest’ultima rappresenta il rapporto tra Soonja e suo nipote David, figlio minore di Jacob che non vede di buon’occhio questa nuova presenza, portatrice di una cultura diversa da quella a cui lui è abituato a rapportarsi. Esplicativo è un dialogo tra i due, in cui il nipote dice alla nonna: <<Una vera nonna cuoce i biscotti, non dice parolacce e non si mette mutande da uomo>>.

La religione invece è vista dai protagonisti come un modo per integrarsi nella piccola comunità dell’Arkansas, mentre per alcuni residenti è una vera e propria àncora di salvezza dalla vita quotidiana, come nel caso di Paul, reduce dalla guerra del Vietnam che aiuta Jacob a mettere su la fattoria dei suoi sogni.

Chung fa percepire allo spettatore il disagio provato nell’avvicendarsi ai nuovi vicini, definiti più volte “zotici”, con inquadrature in cui i personaggi in scena sono sempre distanziati tra loro, come a voler rimarcare uno status superiore.
Questa distanza viene mostrata anche nelle inquadrature in cui sono presenti in scena soltanto Jacob e Monica, i quali provano ancora amore reciproco ma viaggiano su due binari diversi: uno pensa esclusivamente al suo sogno, mentre l’altra vede il quadro generale della situazione, in cui è presente il futuro dei suoi figli.

Nel finale il film raggiunge il suo climax, con una sequenza in cui il regista riesce a trasmettere l’impotenza dei protagonisti attraverso movimenti di macchina incerti, così come il futuro di questa famiglia così autentica negli atteggiamenti e in cui molti si possono rispecchiare.