Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, Berlino – foto di Nastya Dulhiier su Unsplash
Federico Battaglia
174.517. Era questo il numero di registrazione che fu assegnato al prigioniero Primo Levi subito dopo il suo arrivo al campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Il secondo conflitto mondiale imperversava oramai da anni e, complici le numerose sconfitte in Russia e nell’Oceano Pacifico, i paesi dell’Asse erano sul punto di essere sopraffatti definitivamente. Nel febbraio 1944, mese in cui Levi giunse al campo di Buna-Monowitz, uno dei distaccamenti di Auschwitz, la Germania di Hitler si stava gradualmente ritirando dall’Ucraina sovietica, abbandonando tutti i territori assoggettati in precedenza. Tuttavia, gli Alleati avrebbero impiegato un altro anno per avere la meglio sul Terzo Reich e per liberare l’Europa dal giogo nazista. Un anno, questo, che si sarebbe rivelato fatale per centinaia di migliaia di ebrei.
I tedeschi, infatti, non stavano solamente combattendo una guerra di conquista per impossessarsi del continente intero, ma avevano dato avvio ad un altro scontro, scatenato contro dei civili inermi, “colpevoli” di essere di origini ebraiche. Senza aver mai compiuto atti di aggressione contro lo Stato germanico, questi ultimi furono vittime di un programma di sterminio che aveva una sola finalità: annientare la totalità del loro popolo. Quello che vide con i suoi occhi Primo Levi tra il 1944 e il 1945 altro non fu che il prodotto di una politica di distruzione fisica, perseguita indiscriminatamente contro uomini, donne, bambini e anziani. Un omicidio di massa premeditato – un “genocidio”, come sarebbe stato chiamato in futuro – che provocò la morte di quasi sei milioni di ebrei e che lasciò un segno indelebile nella storia del Novecento e, più in generale, dell’umanità.
La “soluzione finale della questione ebraica” viene tutt’ora considerata come l’ultimo atto di un processo graduale di oppressione, promosso a partire dalla presa del potere dei nazisti, nel gennaio del 1933. Sin dai primi giorni al governo, Hitler mise mano a diverse riforme per danneggiare la posizione degli ebrei tedeschi. Prima della nomina a cancelliere, aveva espresso ripetutamente l’opinione che gli ebrei rappresentassero una minaccia mortale per tutte le nazioni del mondo. Nella sua idea fondamentale, facilmente deducibile dalle pagine del Mein Kampf, definiva l’etnia giudaica etichettandola come una “specie parassita”, capace di avvelenare qualsiasi nazionalità.
Il leader del partito nazista giustificava tale orientamento affidandosi in parte alla storia e in parte all’eugenetica razziale. Una sua particolare suddivisione distingueva l’umanità in gruppi biologicamente differenti, ognuno con un proprio profilo genetico e con una propria terra, necessaria per sostenersi e per riprodursi. In un simile contesto il popolo ebraico veniva considerato alla stregua di un “avvelenatore”: non avendo mai esercitato il controllo su alcun territorio, doveva, sempre nell’ipotesi di Hitler, infiltrarsi per approvvigionarsi e sopravvivere. Solo con uno sforzo pianificato e volto a estenuare tutti i popoli reputati sani, esso poteva arrivare alla salvezza e insinuarsi in altre società.
Era quindi inevitabile combattere i nemici mortali non solo della Germania ma di tutto il panorama internazionale. Il preservare e non rovinare la base razziale dei popoli a rischio divenne uno dei punti cardini del programma politico nazionalsocialista. Dopo i successi elettorali del 1933 e dopo aver ottenuto il controllo dello Stato tedesco, Hitler e i suoi collaboratori iniziarono ad attuare concretamente i loro concetti ideologici.
Già durante la primavera del ‘33 furono decisi i primi provvedimenti. Raul Hilberg, noto storico statunitense, anch’egli figlio di ebrei, identificò in questo periodo il primo momento di quel cammino che avrebbe poi condotto all’Olocausto. La fase della definizione, ossia il distinguere l’appartenente alla razza pura (ariana) dall’ebreo (non ariana), cominciò con la normativa sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche e venne perfezionata nel 1935 con la legge sulla cittadinanza del Reich e la legge per la protezione del sangue e dell’onore tedeschi, le cosiddette “leggi di Norimberga”.
Successiva alla definizione fu l’espropriazione che implicò altre misure, utili a privare gli ebrei dei beni di sussistenza e dei mezzi finanziari. Tra il 1937 e il 1938 molti imprenditori ebrei furono costretti, anche sotto minaccia, a vendere le loro imprese a prezzi inferiori al valore originario, e, con loro, vennero colpiti anche i medici e gli avvocati: i primi obbligati a visitare solo pazienti ebrei, i secondi, invece, radiati in toto dagli albi professionali. I risparmi della popolazione ebraica furono, inoltre, depositati su conti controllati dal partito nazista, dai quali si potevano prelevare solo cifre minime per garantirsi il sostentamento.
Il terzo stadio fu quello del concentramento, consistente nel separare visibilmente gli ebrei dal resto della collettività. All’inizio del giugno 1938 le carte d’identità e i passaporti furono contrassegnati con un marchio speciale; in aggiunta, ad agosto venne stabilito che tutti gli ebrei che non avevano un nome tipicamente ebraico dovevano aggiungervi quello di Israel o Sarah.
Il concentramento assunse un ulteriore significato in Polonia dopo la conquista tedesca del settembre 1939. Nei due mesi seguenti il governatore generale della Polonia occupata, Hans Frank, e il direttore dell’Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich, Reinhard Heydrich, ordinarono l’introduzione della stella di David, da indossare sulla manica destra, e la costruzione di nuovi centri urbani, chiamati “ghetti”, in cui riunire tutti gli ebrei caduti sotto la dominazione tedesca. Queste aree chiuse, circondate da mura e cancelli che non potevano essere oltrepassati senza permesso, contribuirono ad isolare gli ebrei dalla popolazione polacca. A causa dello scarso cibo a disposizione e delle malattie che ne derivarono, nei ghetti il tasso di mortalità aumentò vertiginosamente, provocando decine di migliaia di vittime.
Nel frattempo, Hitler muoveva guerra contro il blocco anglo-francese e contro l’Unione Sovietica, annettendo la maggior parte dei territori continentali. Con la conquista dell’Ucraina, della Francia e dei Balcani, milioni di ebrei finirono col cadere prigionieri del Reich, diventando un problema numerico per l’establishment tedesco. Accantonato il progetto di creare un’immensa riserva ebraica, nel distretto di Lublino, e messa da parte anche l’idea di spedire tutti gli ebrei d’Europa in Madagascar, ai tempi colonia francese, i vertici nazisti cominciarono a prendere in considerazione un sistema del tutto diverso rispetto ai metodi sperimentati in passato: l’uccisione indiscriminata, la quarta e ultima fase individuata da Hilberg.
Già dopo l’invasione dell’Unione Sovietica del giugno 1941 erano iniziati i primi massacri, operati dalle Einsatzgruppen, i corpi speciali agli ordini di Heydrich. Malgrado l’alto numero di morti, le fucilazioni di massa a Minsk, a Kiev e a Vilnius portarono più svantaggi che altro. Il procedimento venne reputato lento e, soprattutto, costoso dagli ufficiali tedeschi: dovevano essere impiegati molti soldati e, parecchi di loro, soffrivano di forti ripercussioni psicologiche dovute agli orrori delle stragi cui dovevano farsi carico.
Di conseguenza, venne valutato un espediente più “favorevole” per affrontare al meglio la cospicua minaccia ebraica. Il 20 gennaio 1942, in una residenza nei pressi del lago ghiacciato di Wannsee, si riunirono i rappresentati dei ministeri centrali per deliberare sul destino di milioni di ebrei. Dopo la fine della conferenza, tutti furono concordi nel dislocare ad Est la totalità dei prigionieri ebraici per sottoporli ad un “trattamento speciale”, espressione utilizzata dalla burocrazia tedesca per camuffare le intenzioni omicide del Reich.
Per rendere judenfrei, “liberi dagli ebrei”, tutti i paesi occupati, vennero avviati i lavori di costruzione di sei campi nella Polonia orientale e centrale: Chełmno, Bełżec, Soribòr, Treblinka, Majdanek e Birkenau (Auschwitz II). In questi centri avrebbe trovato la morte circa il 60% delle vittime dell’Olocausto. A Wannsee si decise che l’Europa occupata sarebbe stata rastrellata interamente alla ricerca di ebrei, i quali sarebbero stati mandati dapprima in un “ghetto di transito”, per poi essere convogliati in Polonia. Le operazioni furono avviate nella prima metà del 1942.
Diversamente dai campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald, presenti in Germania e utilizzati per internare prigionieri politici, i campi ad Est furono impiegati prevalentemente nello sterminio sistematico di tutti coloro che giungevano a destinazione. I deportati arrivati subivano una rapidissima selezione: quelli ritenuti in forze venivano spediti ai campi di lavoro, se questi erano presenti; gli altri, invece, venivano uccisi all’istante in camere specializzate, costruite appositamente per ottimizzare il tempo e per velocizzare il processo. Gli addetti alle camere a gas si avvalevano di un acido particolare, commercializzato con il nome di Zyklon B, che provocava il decesso per asfissia.
Per inviare in Polonia milioni e milioni di ebrei sparsi per tutta Europa, i tedeschi dovettero far fronte ad un problema logistico senza precedenti: i rastrellamenti richiedevano infatti uno sforzo enorme per sovraintendere agli spostamenti e per organizzare le partenze. Di comune accordo con il comandante generale delle SS Himmler, Heydrich assegnò il compito ad Adolf Eichmann, il quale si impegnò per amministrare al meglio lo sterminio: le linee ferroviarie furono migliorate, vennero ordinati numerosi vagoni e furono istituite dal nulla unità di coordinamento tra le autorità militari e quelle civili.
Eichmann poté contare anche sull’aiuto di numerose formazioni locali, chiamate per l’appunto “collaborazioniste”. Esse parteciparono direttamente alla realizzazione del piano, con l’adozione delle medesime misure di persecuzione e sterminio in vigore in Germania. Ciò accadde in tutti i paesi gravitanti nell’orbita tedesca, Italia inclusa. Dopo l’8 settembre 1943, gli ebrei italiani furono imprigionati e deportati nel giro di pochi mesi, grazie soprattutto all’intervento della milizia fascista della Repubblica di Salò. La milizia prese parte ai rastrellamenti promossi dai tedeschi, arrivando a catturare 40.000 ebrei in pochissimi mesi. Tra questi era presente anche Primo Levi. Arrestato nel dicembre del ’43 e spedito subito dopo al campo di transito di Fossoli, Levi raggiunse Auschwitz dopo un viaggio drammatico attraverso l’Europa centrale in vagoni sovraffollati e senza cibo né acqua.
Al campo di Buna-Monowitz avrebbe poi vissuto la dura realtà del lager. Privato della sua identità con un semplice numero e messo ai lavori forzati, si ritrovò a vivere in condizioni disumane, con poche razioni alimentari e con il pericolo costante di ammalarsi o di tifo o di vaiolo. Attorno a lui i tedeschi e gli ebrei dei Sonderkommando, i gruppi obbligati a cooperare, trasportavano i corpi provenienti dalle camere a gas nei forni crematori, i luoghi di smaltimento dei cadaveri.
Nonostante la criticità dell’ambiente circostante, Levi riuscì comunque a sopravvivere. Grazie alle sue conoscenze da chimico, determinanti nell’allontanarlo dal campo e nel portarlo “al riparo” in laboratorio, e grazie all’arrivo dell’Armata Rossa nel gennaio del 1945, scampò dall’orrore del campo di sterminio. Fu così che, con le truppe tedesche in ritirata verso Berlino, i russi liberarono tutti i campi presenti in Polonia, mostrando al mondo intero le atrocità commesse dai nazisti.
Con la fine della guerra e con la sconfitta del Terzo Reich gli internati ancora in vita poterono ritornare nei loro stati di provenienza, raccontando al mondo intero cosa avevano appena passato. Un regime o, meglio, uno Stato moderno era quasi riuscito nell’intento di eliminare la loro comunità, composta da nove milioni di individui. Hitler e il partito nazionalsocialista avevano, infatti, portato alle estreme conseguenze l’antisemitismo, elevandolo a motivo esistenziale del totalitarismo stesso e approfittando della situazione creata dalla guerra.
Ancora oggi si fatica a razionalizzare ciò che è accaduto in Europa tra il 1941 e il 1945. Fu, a tutti gli effetti, un crimine contro l’umanità, scatenato per motivazioni legate ad un unico pensiero, quello di Hitler, e che arrivò a colpire qualsiasi appartenente all’etnia ebraica, dai bambini fino ad arrivare ai disabili. Senza quel supporto ideologico, condiviso ai massimi livelli dalla gerarchia nazionalsocialista, lo sterminio non avrebbe potuto assumere le dimensioni effettive registrate nell’ultimo periodo.
Nel campo divenuto il simbolo della follia e della barbarie nazista furono internati ebrei ungheresi, francesi e russi, di tutte le età, che si ritrovarono ad Auschwitz condividendo un unico destino: quello di perire per mano di un altro popolo. Lo scrittore ebreo Yehiel De-Nur, sopravvissuto come Primo Levi, scrisse di Birkenau come di “un altro pianeta”, dove le persone “respiravano secondo leggi di natura diverse”. La sua percezione sarebbe poi stata confermata dal resto degli studiosi dell’Olocausto. Un evento che, a detta loro, non può essere analizzato al pari degli altri avvenimenti: in altre parole, un universo di discorso totalmente estraneo, fondato su regole di concepimento della realtà che vanno al di là dell’esperienza di qualsiasi altra società contemporanea.