Commodo
Federico Battaglia
Chi di noi non ha mai visto almeno una volta il capolavoro di Ridley Scott, Il gladiatore? Ambientato nella Roma del II secolo d.C., il film riuscì ad ottenere ben cinque Oscar alla cerimonia di premiazione del 21 marzo 2001, diventando a tutti gli effetti un cult movie. Anche a vent’anni di distanza vengono ricordate le frasi di Massimo Decimo Meridio, interpretato da un magistrale Russell Crowe, e le straordinarie musiche di Hans Zimmer, a testimonianza del fatto che la pellicola è riuscita a lasciare un segno indelebile nell’immaginario collettivo.
Eppure, il film non fu esente da critiche, soprattutto di natura storica. Già subito dopo l’uscita nelle sale, vennero fatte notare alcune imprecisioni che riguardavano l’antagonista principale, Commodo. Con il volto di Joaquin Phoenix, la figura dell’imperatore romano fu in parte rivisitata, o meglio, adattata all’opera cinematografica, con l’omissione o la modifica di eventi documentati e realisticamente accaduti.
È quindi necessario fare un po’ di chiarezza sull’operato del princeps che più ha ispirato gli sceneggiatori di Scott, uno dei sovrani, sicuramente, più discussi di tutta la storia imperiale romana.
Appartenente alla dinastia degli Imperatori adottivi, Lucio Aurelio Commodo ascese al trono in seguito alla morte del padre, avvenuta nel marzo del 180 d.C. presso la città-accampamento di Vindobona. Non ci fu nessun assassinio politico né alcun complotto per abbattere Marco Aurelio. Quest’ultimo spirò dopo essersi ammalato di peste durante una delle tante uscite militari per ispezionare i campi di battaglia. Da anni, infatti, si stava combattendo una guerra per il possesso dei territori a nord del Danubio, abitati dalla popolazione germanica dei Marcomanni.
Proprio con i Marcomanni Commodo decise, contro ogni aspettativa, di concludere un accordo di pace, offrendo loro un’ingente somma di denaro. Nonostante le numerose vittorie ottenute dal padre e la forte considerazione che nutriva nei suoi confronti, il giovane princeps abbandonò immediatamente la politica espansionistica del suo predecessore con il chiaro intento di ritornarsene a Roma.
Giunto nella capitale, iniziò il suo principato sotto i migliori auspici. In molti credevano che avrebbe esercitato il proprio potere come lo aveva fatto Marco Aurelio, sovrano di notevoli virtù amministrative. Ma, già durante i primi tempi, il giovane imperatore si dimostrò totalmente disinteressato all’adempimento dei suoi doveri. Non avendo nessuna inclinazione al governare, Commodo preferì affidarsi ad altri personaggi, selezionati tra le sue numerose conoscenze a corte. Il primo di essi fu il funzionario Tigidio Perenne, nominato dall’imperatore come comandante unico della sua guardia personale.
Con le redini dell’Impero nelle sue mani, Perenne riuscì ad ottenere un potere smisurato nella Roma di inizio decennio, divenendo, a tutti gli effetti, l’unica guida a cui affidarsi. Mentre il suo prefetto del pretorio si occupava degli affari statali, Commodo si concedeva numerosi svaghi, tra cui i duelli nelle arene. Alto e di fisico possente, partecipò a più di settecento spettacoli, pretendendo di essere regolarmente pagato e registrato come un normale guerriero. In più occasioni, dimostrò una certa bravura specialmente nelle venationes, delle forme di divertimento che prevedevano la caccia e l’uccisione di animali selvatici.
Prima d’ora, nessun imperatore aveva mai preso parte agli spettacoli dei gladiatori e questo non fece altro che metterlo in cattiva luce di fronte all’aristocrazia romana che, comunque, non fu in grado di opporsi ai suoi deliri. Chiunque osasse mettere in discussione la sua autorità veniva, infatti, inserito in una lista di proscrizione imperiale, rischiando l’esilio e persino la morte. Le liste di proscrizione altro non erano altro che degli elenchi in cui Commodo annotava i nomi delle persone sospettate di volerlo attaccare o uccidere. Una consuetudine, questa, che venne decisa dal princeps sin dai suoi primi anni di regno, più precisamente dal 182 d.C., periodo in cui fu organizzata la prima congiura nei suoi confronti.
Gli artefici della prima cospirazione volta a spodestarlo furono sua sorella Annia Lucilla e il marito di lei, Tiberio Claudio Pompeiano. Il nipote di Pompeiano, Quinziano, fu incaricato di infierire il colpo fatale, ma venne sopraffatto mentre aveva la spada in mano. Le sue parole: “Qui c’è il pugnale che ti spedisce il Senato”, pronunciate poco prima del tentativo di assassinio, diedero a Commodo il pretesto per poter instaurare un regime dispotico e per limitare i poteri del Senato stesso, l’altro grande organo istituzionale del sistema politico romano.
Iniziò, pertanto, a sottoporre i senatori ad attacchi sempre più pesanti, impossessandosi dei loro beni e dei loro terreni, e utilizzandoli per colmare il vuoto che si era venuto a creare nelle casse imperiali, svuotate dalle sue continue stravaganze. In questa svolta autoritaria, l’imperatore venne sostenuto dal suo nuovo consigliere Marco Aurelio Cleandro, che qualche tempo prima aveva preso il posto di Perenne, fatto uccidere per aver mostrato troppe ambizioni verso il trono. Come accaduto per il suo predecessore, Cleandro riuscì ad ingraziarsi i favori del sovrano e, attraverso di esso, detenne il controllo di Roma fino al 190 d.C. .
In tutto questo lasso di tempo, Commodo non diede nessun segno di miglioramento, anzi incominciò a manifestare una megalomania sempre più accesa. Arrivò addirittura al punto da correggere il nome di Roma in quello di “Colonia Commodiana”, come se si fosse trattato di un suo possedimento personale. Lo stesso nome venne conferito ad alcune legioni, ad un una nuova grande flotta schierata in Africa e perfino all’intimidito Senato romano. Un comportamento ossessivo che veniva ugualmente ostentato nelle arene, dove l’imperatore si presentò più volte nelle vesti dell’eroe Ercole, credendo di esserne la reincarnazione.
Sempre attento a dimostrare la propria “grandezza”, Commodo perse però di vista la realtà non proprio favorevole in cui era caduta Roma: le finanze erano arrivate al collasso, nella Britannia erano iniziati i primi scontri con il popolo dei Caledoni, per non parlare dei giochi di potere che stavano danneggiando irrimediabilmente il mantenimento della gestione centrale. Emblematico fu il caso della caduta di Cleandro, vittima di un complotto ordito dal prefetto dell’annona (responsabile dei rifornimenti di grano) che creò deliberatamente una scarsità di approvvigionamenti nella capitale, indicandolo come unico colpevole della carestia. Il popolo e la guarnigione cittadina si scagliarono contro di lui, facendolo condannare a morte.
Nonostante i notevoli progressi in campo artistico – su tutti la costruzione della “colonna di Marco Aurelio” e i cambiamenti nell’arte scultorea -, il principato di Commodo non riuscì a preservare la stessa stabilità e lo stesso progresso dei regni precedenti. I bruschi passaggi di potere e il regime di terrore in cui il princeps aveva fatto piombare l’Urbe, lo resero avulso a parecchie personalità a corte, tra cui il nuovo prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto. Sapendo di non poter contare sugli abitanti capitolini e sui soldati, ai quali Commodo aveva sempre riservato giochi e denaro, Leto si avvicinò alla concubina dell’imperatore, Marcia, e al suo ciambellano, Ecletto. D’accordo con i due funzionari di spicco dell’amministrazione provinciale, Clodio Albino e Settimio Severo, i congiurati organizzarono l’assassino per la notte del 31 dicembre 192.
Durante uno dei tanti banchetti presso il palazzo imperiale, Marcia tentò di avvelenare il calice di vino da cui beveva il princeps. Quest’ultimo, però, credendo di sentirsi appesantito dal pasto abbondante, si ritirò nei suoi appartamenti e chiese ai suoi servitori di aiutarlo, salvandosi involontariamente. Di conseguenza, Leto, temendo di essere scoperto, si rivolse all’allenatore di Commodo, Narcisso, che, spinto dalla promessa di una ricca ricompensa, lo uccise strangolandolo.
Venuti a sapere della notizia, i senatori decretarono immediatamente la damnatio memoriae per l’oramai ex imperatore, ordinando di abbattere tutte le sue statue e di cancellare il suo nome dalle iscrizioni. Il suo cadavere venne poi gettato nella fossa dei traditori, tra l’entusiasmo di tutti gli uomini politici che avevano dovuto sopportare per anni le sue angherie. Leto ed Ecletto, nel frattempo, avevano offerto la porpora imperiale al prefetto Publio Elvio Pertinace che, dopo essersi sincerato della reale scomparsa di Commodo, la accettò, divenendo il nuovo princeps romano.
La memoria del “peggiore dei tiranni” venne comunque riabilitata, nemmeno tre anni dopo, da Settimio Severo. Uscito vincitore da una delle più sanguinose guerre civili romane, questi, tentando di ristabilire un legame con la dinastia di Marco Aurelio per legittimare il proprio potere, ritrattò la decisione del Senato e decretò l’apoteosi per Commodo, elevandolo a divus, e dedicandogli un apposito sacerdote.
Tuttavia, il provvedimento di Severo non cancellò gli anni bui che Roma visse dal 180 al 192 d.C. Dopo quasi un secolo dall’instaurazione del principato adottivo, che aveva portato una certa solidità governativa nell’Impero, sulla scena politica si ripresentò la stessa dissolutezza che aveva caratterizzato i regni di Caligola e di Nerone nel I secolo d.C. .
Forse è stata proprio questa dissolutezza ad incuriosire gli sceneggiatori di Ridley Scott: l’arena, il dispotismo, la crudeltà dimostrata nei confronti delle altre istituzioni, tutti fattori che lo avevano elevato alla stregua di un autocrate. Malgrado gli errori riguardanti la sua vita – su tutti la morte del padre e il principato di breve durata -, il giovane imperatore visto sul grande schermo può essere paragonato a quello realmente vissuto: un personaggio che pensò solo ai propri piaceri, che delegò il potere di cui godeva e che compromise un periodo di prosperità che perdurava da molto tempo. Credendo di essere un semi-dio, Commodo mise fine ad una delle dinastie che più aveva migliorato la posizione di Roma e che era stata inaugurata da Nerva e Traiano ben cento anni prima. Due imperatori che, diversamente dall’Ercole romano, avevano deciso di mettere da parte il cattivo governo per il bene dell’Impero e dei suoi abitanti.