Dipinto Dante nella pineta, opera del triestino Carlo Wostry (1865-1943), esposto alla mostra “Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante” presso la Biblioteca Classense di Ravenna fino al 17 luglio 2021
Pierluigi Finolezzi
Quando Dante era ancora impegnato a comporre la terza cantica della sua Comedìa, la sua fortuna cominciava a crescere tra gli ambienti intellettuali e cortigiani del tempo. Ma ciò che sorprende è la sua duttilità e la sua capacità di adattamento anche tra i ceti medi e bassi. Borghesia e volgo furono due importanti mediatori nella diffusione dell’opera dantesca, facilitata nella sua affermazione da quel pluristilismo e plurilinguismo tanto decantati dalla critica letteraria. Alla luce di queste minime considerazioni non sorprende che pochi anni dopo la morte dell’Alighieri circolassero una moltitudine di codices della Commedia, contenenti non solo i versi, ma anche raffinati commenti che illustri letterati e non si cimentarono a redigere. Tra i più noti ci fu Boccaccio, ammiratore sui generis del Sommo, che non solo trascrisse e commentò il capolavoro dantesco, ma ne causò in molte parti delle alterazioni che si allargarono e moltiplicarono nei secoli. La condizione filologica della Commedia, alla quale deve aggiungersi la mancanza di autografi, ha creato non pochi grattacapi a chi sin dall’Ottocento, in diverse parti d’Europa, ha cercato di ricostruirne lo stemma codicum. I metodi impiegati e i risultati ottenuti dai tanti editori, dal Foscolo sino ai più recenti di Giorgio Inglese, passando dalle eccellenti proposte del Petrocchi, pur rassodando il terreno attorno alle innumerevoli tradizioni manoscritte e poi a stampa, hanno evidenziato la difficoltà di movimento nell’inestricabile rete di testi prodotti sin dal XIV secolo. A partire da questo secolo all’aumento delle copie della Commedia corrisponde un crescente interesse per l’opera che non solo finì per essere letta da chi poteva permetterselo, ma anche tramandata oralmente, recitata e cantata da chi non era capace di destreggiarsi tra le pagine di un libro con conseguenti e ulteriori alterazioni del testo. Aneddotica ma non inverosimile è la testimonianza de Il trecentonovelle di Franco Sacchetti (1335-1400), che descrive un Dante intento ad udire la recita dei suoi versi da un fabbro mentre batteva il ferro sull’incudine. Quel canto apparve all’Alighieri un’ingiuria per quanto quel rozzo artigiano osasse guastare, smozzicando e appiccando, il suo libro. La diatriba tra il poeta e il fabbro si risolse con un muto silenzio da parte del secondo che da quel giorno lasciò stare il Dante, e il primo che rivendicò la necessità del testo scritto per evitare ogni sorta di guastamento. Nonostante le pretese del Dante di Sacchetti, le cose andarono diversamente e ci furono altri fabbri (non solo tali) che continuarono a corrompere il testo. Aldilà di queste deturpazioni, però, la Commedia segnò con la sua essenza uno dei principali momenti di evoluzione della lingua italiana che dall’Alighieri si ritrovò composta per ben il suo 90%, portando il linguista Tullio de Mauro a sostenere che noi italiani ancora oggi parliamo la lingua di Dante, una situazione linguistica ben diversa da quella che ne uscirebbe fuori se si confrontasse l’inglese di Chaucer o Shakespeare con quello contemporaneo o il francese ancora di Villon e Rabelais con quello odierno.
Seppur scalzato dal canone bembiano che gli preferì Petrarca, Dante con la sua grandezza letteraria, il suo contributo linguistico, la sua personalità e le sue vicende biografiche si prestò bene alla discussione pre-risorgimentale e risorgimentale. Già Foscolo, agli inizi dell’Ottocento, lo inserì nel suo canone di grandi italiani, dal quale escluse Petrarca. Dante, insieme a Machiavelli, Tasso e Galileo furono impregnati di quell’antico fuoco immortale che li animò nell’esilio, nella tortura, nell’ingratitudine e nel terrore inquisitorio. Essi erano intrisi di quell’amor patrio che occorreva instillare nell’animo degli italiani dopo la Rivoluzione e le prime campagne napoleoniche, ma che le autorità francesi ostacolarono non appena Foscolo pronunciò queste parole nell’orazione inaugurale della cattedra di Eloquenza di Pavia (1809). Con Foscolo, Dante diventa il centro di una serie di personaggi che si erano opposti alla decadenza morale italiana, ergendosi ad eroe del Medioevo, capace di descrivere in poesia le vicende de’ tempi suoi, quando la libertà faceva l’estremo di sua possa contro la tirannide. Ma l’acume foscoliano va ben oltre, cogliendo in anticipo le tendenze posteriori, sino a scorgere in Dante la poesia del futuro, capace di far sorgere lo spirito pubblico in Italia e di forgiare una lingua nuova nazionale, rendendole tributari quanti dialetti ha l’Italia. Pur amandolo, in questa sua riflessione politica e morale, non rientrava il Petrarca, ritenuto un cortigiano senza scrupoli che si era contaminato con la decadenza, svendendo insieme ai suoi signori l’Italia agli invasori francesi e spagnoli.
Questa presa di posizione fu condivisa pochi decenni dopo da uno dei più illustri critici letterari dell’Italia Unita, Francesco De Sanctis che con la sua Storia della letteratura italiana ha voluto descrivere la storia della decadenza e rinascita della nazione italiana. Petrarca, in qualità di portatore della malattia della rêverie e di intellettuale privo di ira e di cattiveria, è contrapposto ad un Dante virile e concreto che con Machiavelli è stato capace di stare lontano da quel morbo non ingenito nel popolo italiano, riuscendo ancora a manifestare l’eredità dell’Antica Roma, rappresentata nell’ottica desanctisiana da Scipione e Cesare. Ancora, per il critico, Dante è l’unico degno di essere definito “poeta” perché con il suo essere al tempo stesso agens e auctor manifesta una sincerità e un’efficacia che lo rendono avverso ai potenti, da cui per tutta la vita restò lontano. Principi e popoli non distinguevano in lui l’uomo dal poeta, il suo essere bruno e asciutto, l’avere una fronte bruna e gli echi infossati divorati dal fuoco interiore rendevano il Sommo un politico efficace che si batté contro la tirannia, ponendolo agli antipodi – detta da De Sanctis – di quell’inerzia dell’Umanesimo che tanto male fece alla nazione.
Fatta l’Italia, tuttavia, la retorica violenta e il furore sprezzante della stagione risorgimentale lasciò spazio a posizioni più misurate ed equilibrate che trovarono espressione nell’opera critica di Giosuè Carducci. Fin da subito ilsuo obiettivo fu quello di stemperare il pregiudizio sui tanti letterati denigrati dai suoi predecessori, ridurre l’autorità morale e politica di Dante riponendola alla pari di quella di Boccaccio e Petrarca e rivalutare gli apporti dell’Umanesimo sul sentire nazionale italiano. Manifestazione di un Risorgimento in esaurimento, Carducci si oppone a quella che definisce monarchia dantesca e si indirizza verso quel politeismo letterario che non genera gerarchie tra questo o quello scrittore. Nessun parallelismo meritava di essere fatto tra i grandi della letteratura italiana, in quanto tutti si presentavano come candidi fiori nel ricco giardino culturale del Bel Paese, nel quale Dante è stato sì ultimo uomo del Medioevo, un baluardo contro la decadenza e un esempio di eccezionalità (Foscolo – De Sanctis), ma anche un uomo dal carattere aspro e severo che lo avvicinava di più all’indole germanica che a quella italica e che gridava la guerra anche dei tiranni contro i guelfi. Riducendo l’incensazione dell’Alighieri, Carducci ottenne un doppio risultato: da una parte riuscì a riportare giù dall’altare Dante, a eliminare i pregiudizi, a smorzare la centralità del dantismo e dei dantisti nel dibattito risorgimentale, dall’altra far guadagnare ulteriore fortuna a Dante fuori dai nostri confini nazionali, perché un autore come l’Alighieri non è patrimonio solo dell’Italia, ma di tutti. È così che Dante l’italiano è diventato Dante l’internazionale, il poeta per eccellenza che è letto e appassiona tutto il mondo. D’altronde, nonostante le etichette accademiche, la letteratura non guarda ai confini degli Stati, ma trascende dalle differenziazioni, riprendendo e rinnovando temi, storie, episodi, personaggi che prima di parlare di loro stessi parlano ancora e sempre di noi. Dante è prima di tutto l’Italia, ma non è solo l’Italia e Chaucer, Milton, Blake, Tennyson, Montale, Eliot, Pound, Borges e tanti altri lo compresero già nelle loro epoche e prima e dopo di qualsiasi epopea nazionalista.
BIBIOGRAFIA
Carducci G., Dante, Petrarca e il Boccaccio, 1866-1867.
Carducci G., Presso la tomba di Francesco Petrarca, 1874.
De Mauro T., Postfazione al Grande Dizionario Italiano dell’uso, 1999.
De Sanctis F., Saggio su Petrarca, 1823.
Foscolo U., Origine e ufficio della letteratura, orazione inaugurale della cattedra di Eloquenza, Pavia, 22 gennaio 1809.
Foscolo U., Saggio sul Petrarca, 1823.
Foscolo U., Epoche della lingua italiana, 1824.
Sacchetti F., Il trecento novelle, (a cura di V. Marucci), Roma 1996, pp. 345-346.