Michela De Marco
Molto spesso ci si ricorda di scrittori e poeti solo in occasione dei loro anniversari. Se ne ricordano la personalità, la biografia, gli eventi, tralasciando l’immenso patrimonio culturale ed umano che essi hanno tramandato: le loro opere, la loro poetica, la loro sensibilità e visione dell’io e del mondo. Ci si focalizza insomma sul quando, come e, delle volte, anche perché essi ci abbiano lasciato, trascurando meschinamente il loro lascito. È il caso di Cesare Pavese, lo scrittore delle langhe e della collina torinese, quella in cui è cresciuto e si è formato come ragazzo, uomo e scrittore, perché Pavese è tutto lì, nelle sue colline che abbracciano il profilo della città, in perenne dicotomia tra il sentirsi più contadino o cittadino.
Sembra infatti che non si possa non ricordare Pavese senza citare quel suo gesto estremo, così tante volte ricercato col pensiero, immaginato e a volte bramato, tanto da essere stato definito dall’amico Davide Lajolo il suo “vizio assurdo”. Bisognerebbe invece, come ricorda Italo Calvino, parlare di Pavese «alla luce della battaglia vinta giorno per giorno sulla propria spinta autodistruttiva». Evidenziarne quindi la sua instancabile operosità letteraria, la sua energica e quotidiana ricerca negli studi; la sua partecipazione attiva al lavoro presso la Casa Editrice Einaudi, il suo metterci anima e corpo in ogni cosa che faceva: dunque la sua forza, seppure così antiteticamente debole. Il tutto lottando contro la propria negatività ed asocialità, assunte spesso a difesa di sé. Bisognerebbe insomma usare con estrema delicatezza questa conoscenza dell’autore per indagarne le opere, pregne di mito, visto come espressione di un’esperienza collettiva, e di simboli; opere abitate dai luoghi dell’infanzia – la collina, la campagna e le langhe tutte – che rivisti e rivissuti permettono di «vedere le cose per la seconda volta», di battezzarle e soltanto così scoprirle realmente. Per Pavese infatti la collina rappresenta un oltre, un archetipo capace di parlare in quanto simbolo. E così i ricordi divengono la memoria del mito, che deve essere rivissuto per poter essere compreso. Questa sostanzialmente la sua poetica, questa l’ottica entro cui guardare le colline, i contadini e tutti i personaggi tipici del microcosmo pavesiano che vivono entro i suoi romanzi.
Pavese, insomma, nei suoi scritti abbandona ogni forma di lirismo e di introspezione per prestare ascolto al sentire di quest’umanità marginale della società; a questi contadini, vagabondi, operai e donne lontane dall’immagine del focolare domestico, per svelare il loro vivere e dunque per scoprire se stesso, un escluso anch’egli, come loro.
Per il lettore però conoscere Pavese attraverso le sue parole non è mai impresa spontanea, né semplice, perché ogni romanzo dello scrittore di Santo Stefano Belbo appare ruotare attorno al non detto. D’altronde proprio questa sembra essere la sua cifra stilistica: dire ciò che vuole realmente dire, tacendolo. Qui l’impresa della lettura e proprio qui l’epifania. Una volta approcciatisi a Cesare Pavese se ne scopre infatti la delicatezza celata dietro l’atteggiamento schivo e scontroso, e dunque tutta la ricchezza del suo essere, uomo e scrittore.
A 70 anni dalla sua dipartita, segnata dalla premeditazione, dalla solitudine e dal torpore dei sonniferi, molti ritengono sia arrivato il momento di perdonarlo. Perché Pavese, richiamando un altro eccelso poeta quale Vladimir Majakovskij, prima di suicidarsi, sul romanzo che gli era più caro – Dialoghi con Leucò – appuntò queste poche ma glaciali parole: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi». Ma cosa c’è davvero da perdonare a Pavese? L’essere forse stato così rigorosamente se stesso? L’aver voluto «far coincidere ad ogni passo la vita con la letteratura», come ricordò di lui Calvino? Non vi è da perdonarlo, semmai c’è bisogno di comprenderlo. In fondo è forse proprio questo che ha sempre cercato, in primis nelle donne: comprensione. Di tante incontrate, corteggiate e bramate, nessuna che gli abbia “accarezzato” l’anima, come egli avrebbe voluto. «Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?». È vero, Pavese non ha fatto altro che cercare, in quarantadue anni di vita, una donna che lo potesse realmente amare, per sentirsi infine completo in quanto uomo. Un senso di compiutezza rincorso per anni, ma mai raggiunto nonostante l’esser diventato scrittore, così come aspirava. Ma non è per via di questa eterna delusione amorosa che si è suicidato: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Così scrive nelle ultimissime pagine del suo diario – zibaldone, Il mestiere di vivere; e sotto questa luce va letto quel «non fate troppi pettegolezzi», quasi a voler dire di non fantasticare troppo sul perché del suo gesto, men che meno su ragioni amorose. Perché a Pavese non mancò tanto il calore femminile, quanto la spensieratezza della giovinezza, immolata in nome della letteratura, e l’aver pienamente e liberamente goduto della vita. Queste le sue nudità e miseria rivelategli.
Ma in fondo, compiere un gesto, qualsiasi tipo di gesto, anche il più estremo, non è pur sempre un atto di vita?
E va bene così, Cesare. Senza troppi pettegolezzi.