di Roberto Molle
Il 18 maggio 1980 moriva Ian Curtis, cantante della leggendaria band dei Joy Division. Nonostante il breve periodo di attività, il gruppo inglese capitanato da Ian Curtis ha segnato un’epoca. Ha rivoluzionato completamente l’idea del punk, dando il via all’era della new wave passando attraverso il post-punk. Per il quarantennale della scomparsa di Curtis, un po’ ovunque nel mondo si erano preparate manifestazioni e concerti per ricordarlo. Il lockdown dovuto al Covid-19 ha bloccato qualsiasi iniziativa pubblica, ma non ha impedito a un progetto nato nel Salento di celebrarlo con un libro e un cd dove una quarantina di poeti, scrittori e musicisti da un po’ tutta Italia hanno tributato a Ian Curtis un omaggio fatto di scritti e di canzoni. Il titolo dell’opera è NESSUN PERDUTO AMORE un canto per Ian Curtis ed è stata ideata e curata da Roberto Molle. Pubblichiamo qui l’introduzione al libro.
Ho trascorso un anno e mezzo della mia vita a La Maddalena in Sardegna. Ero molto giovane e mi trovavo lì per il servizio militare di leva. Quando arrivai sull’isola la prima volta era un giorno di agosto del 1983, oltre agli zaini pieni di vestiti e altri effetti personali, mi ero portato dietro un po’ di musica. Qualche centinaio di cassette audio e un buon numero di dischi stipati in un borsone a costituire ulteriore zavorra per un viaggio lungo e allucinante. Partenza da Lecce alle prime luci dell’alba e arrivo a Roma nel pomeriggio per poi ripartire, dopo qualche ora, per Civitavecchia. Da qui, dopo una lunga attesa, l’imbarco sul traghetto per Olbia alle ventitré e l’arrivo in Sardegna alle sei del giorno successivo. Poi un altro pullman per Palau, un’altra attesa e, infine, ancora un traghetto per La Maddalena. Insomma, un’odissea che si è ripetuta per ogni viaggio di andata e di ritorno da quei luoghi bellissimi e, per me, anche maledetti.
Dal punto di vista musicale arrivavo in quella terra con un background ricco di ascolti di vari generi, ed essendo da sempre un melomane compulsivo, pensavo di tenere a bada nostalgie e malinconie di ritorno riempiendo il tempo libero con tutto il progressive, il folk e il rock che mi ero portato dietro, nonché di alcune sirene di quella new wave che prepotentemente erano filtrate attraverso le maglie strette della penisola salentina permettendo a migliaia di adolescenti come me di scoprire nuove sonorità e tendenze.
Per combattere la mia idiosincrasia nei confronti della vita militare iniziai a lavorare in una radio e a frequentare un ragazzo che era nato e vissuto per un certo numero di anni in Australia, anche lui militare di leva che, come me, si era portato dietro un bel po’ di dischi. La cosa interessante stava nel fatto che si trattava di album di musicisti dei quali leggevo spesso su alcune riviste specializzate, ma che probabilmente non sarei mai riuscito ad ascoltare, essendo tutto “materiale” di difficile reperibilità in Italia.
Il mondo musicale fino ad allora conosciuto ebbe un incredibile sussulto che ampliò i miei orizzonti. Nomi nuovi si aggiungevano all’universo sonoro fino ad allora conosciuto. Simple Minds, Wall Of Woodoo, Spear Of Destiny, Tears For Fears, The Go-Betweens, Soft Cell, Virgin Prunes, The Cure, Siouxie And The Banshees, Throbbing Gristle, The Sound sono solo alcuni di essi. Decisi a quel punto di lasciar perdere per un po’ il “vecchio” mondo del classic-rock e di dedicarmi all’approfondimento di quei suoni così diversi, eccitanti e, in qualche modo, destabilizzanti. Sì, destabilizzanti, come potevano esserlo le chitarre urticanti dei Sex Pistols e i testi delle canzoni dei Buzzcocks che insieme ai Ramones avevano, di fatto, fondato il punk tra gli States e l’Inghilterra; ma anche come l’oscurità post-punk delle canzoni dei Cure scandite dal basso lugubre di Simon Gallup e dalla voce languida e androgina di Robert Smith.
Fu durante una seduta d’ascolto improvvisata nella saletta “guasti” della marina militare – un posto che custodiva i marchingegni elettromeccanici atti a smistare le telefonate in entrata e in uscita – che incrociai per la prima volta i Joy Division. L’australiano e io seduti a un tavolino, fischi ultrasonici di fondo rimandati dai moduli telefonici e folate gelide convogliate sui nostri volti da ventilatori che servivano a raffreddare le apparecchiature, un registratore Grundig che oggi diremmo vintage, un’atmosfera da video musicale dei primi Kraftwerk e una cassettina con sopra scritto semplicemente Still.
Uno dei due inserì il nastro e premette play. Per qualche attimo il soffio di fondo iniziale andò a fondersi ai fischi ultrasonici e all’aria fredda nella stanza, poi, d’incanto: il drumming secco di una batteria, le note lancinanti di una chitarra, il suono ossessivo e pulsante di un basso e una voce, che attaccava scura e dolente, sospesa tra la sensazione di paura sull’orlo della caduta in un baratro e la percezione dello scivolamento nella bocca umida di una caverna che conduce direttamente nelle tenebre.
“Questa è una crisi che / sapevo doveva arrivare, / demolendo l’equilibrio che / avevo mantenuto. / In dubbio, sconvolto e volubile. / Incerto su ciò che verrà dopo. / È questo il ruolo che volevi interpretare? Sono stato sciocco a chiedere tanto. Privo di protezione e di una guida, crolla tutto al primo contatto…” sono queste le prime parole cantate da Ian Curtis che ho ascoltato e appartengono a Passover, un brano incluso in CLOSER, secondo album dei Joy Division. Nella saletta “guasti” via via si è susseguito l’ascolto di altri brani: Transmission, Isolation, Disorder, Decades, Digital. L’atmosfera, come se non tenesse più conto dell’aria fredda pompata dai ventilatori, si andava “riscaldando” degli scenari siderali evocati dalle parole incastonate nei testi delle canzoni scritte da Ian Curtis. Scoprirò che STILL altri non era che un doppio album, raccolta di brani pubblicato postumo nel 1981, dopo la morte di Ian Curtis e lo scioglimento della band. Il disco è costituito da materiale registrato in studio già edito in precedenza, da alcuni inediti e da una registrazione dal vivo dell’ultimo concerto della band presso l’Università di Birmingham. Da lì è stato tutta una corsa a scoprire, conoscere, assimilare la musica dei Joy Division.
Gli scenari decadenti e apocalittici evocati dalle canzoni della band si collegavano perfettamente alle mie frustrazioni di ventiduenne, costretto a vivere in quel non luogo algido e spersonalizzante quale poteva una caserma militare. Empatizzavo con i testi scritti da Ian: i suoi tormenti, le sue paure, il suo sentirsi inadeguato, erano le stesse sensazioni che provavo io nella mia situazione. Considerato che mi trovavo ad avere più o meno la stessa età che aveva ogni membro dei Joy Division quando riuscirono a cristallizzare in una manciata di canzoni tutta la bellezza, il disagio e il nichilismo strisciante espressi da una generazione che stava vivendo sulla propria pelle sconvolgimenti epocali, lasciai perdere il fatto di essere un italiano e loro dei ragazzi inglesi e iniziai a pensare alla band come una perfetta portavoce della rabbia e delle aspettative deluse di milioni di giovani in tutto il mondo.
Solo due splendidi album – UNKNOWN PLEASURES e CLOSER – più alcuni singoli, di cui alcuni leggendari: Komakino, Transmission, Atmosphere e Love will tear us apart (chi non l’ha ascoltata almeno una volta nella vita anche solo attraverso una cover dei Cure, di Thom Yorke, dei Passenger o quella “molto” discutibile di Paul Young?), tanto è bastato per far entrare nel mito i Joy Division.
La voce cavernosa e ipnotica, le liriche ricercate e profonde, l’insolita danza sul palco immortalata nei rari video esistenti, rimandano di Ian Curtis un’icona sciamanica che ha influenzato tantissimi cantanti (su tutti Tom Smith degli Editors e Paul Banks degli Interpol). Purtroppo Ian, pochi giorni dopo aver registrato Twenty for hours durante la session di CLOSER, ha trovato il suo destino. Era il 18 maggio 1980 quando decise di porre fine alla sua esistenza, impiccandosi nel suo appartamento all’età di 23 anni. La sua morte, come spesso accade in casi del genere, è avvolta nel mistero: i più materialisti sostengono che il gesto estremo sia stato provocato da un conflitto amoroso, altri appoggiano una tesi più affascinante, secondo la quale la decisione di suicidarsi sarebbe stata dettata da un profondo momento di crisi esistenziale.
Nel complesso, è proprio il suono dei Joy Division ad essere stato seminale per innumerevoli band in tutto il mondo. Ad onor del vero, all’epoca il gruppo non ha avuto il tempo di accorgersi di poter diventare un simbolo, lo è diventato quando tutto era ormai finito. I Joy Divison, dopo la morte di Ian Curtis sciolsero la band e si riformarono con il nome di New Order (ma quella è un’altra storia…).
Facciamo un passo indietro allora, iniziando da dove tutto è iniziato per tirare un po’ le fila e cercare di penetrare la coltre che avvolge la vicenda umana e artistica di quattro ragazzi che, in un battito di ciglia seppero scompigliare le carte del punk (ma anche del rock tutto). Solo tre anni vissuti intensamente tra le viscere e i prosceni dei rock-clubs e tante impronte soniche lasciate sulle ribalte, tante luci ancora accese nel moto dei suoni e nella mente dei fans che hanno costruito intorno ai Joy Division fantastici monumenti per il culto.
Le origini del gruppo risalgono al 1976, l’anno in cui le armi eversive del punk esplosero i primi colpi contro il potere e Manchester fece la sua parte dando i natali ai Buzzcocks, gruppo prodromico del movimento, e ospitando all’Electric Circus – locale famoso per le esibizioni di gran parte delle formazioni punk-rock e non solo – nel dicembre 1976 un paio di concerti dell’Anarchy in the U.K. tour dei Sex Pistols. Proprio nel primo di quei concerti, tra il pubblico, c’erano due ragazzi di Salford che si chiamavano Peter Hook e Bernard Dicken, poi meglio conosciuto come Bernard Sumner. Fulminati sulla via di Damasco del punk e facendo proprio l’assunto: “se ci riescono loro che non sanno suonare e fanno solo rumore, perché non possiamo farlo anche noi?”, decidono di formare una band. Nascono così gli Stiff Kittens con una formazione a tre: Peter Hook al basso, Bernard Sumner alla chitarra e Terry Mason alla batteria. Si esibiscono anche loro all’Electric Circus, raccogliendo, per la verità, critiche abbastanza negative da parte dei giornalisti che si aggiravano nei club della città per documentare il fermento in atto, costituito da numerose band che cercavano di emulare i Sex Pistols.
Proprio all’Electric Circus Peter e Bernard incontrarono Ian Curtis, un ragazzo di Macclesfield appassionato di letteratura e della musica dei Velvet Underground, di Iggy Pop e di David Bowie; che scriveva poesie e aveva velleità di cantante. Da lì in poi furono in quattro. Il nome di Stiff Kittens fu prestamente abbandonato in luogo di quello di Warsaw (ispirato da Warszawa, il brano strumentale scritto da David Bowie con Brian Eno e presente nel suo album del 1977 Low). Dopo varie alternanze, alla batteria arriva Steve Morris e la formazione dei Warsaw diventa quella storica che confluirà nei Joy Division. Tanti concerti nei club locali e nelle città vicine, la registrazione di un demo-tape e poco più, con i musicisti della band che cominciano a saper tenere in mano uno strumento e Ian a impostare la voce.
Ancora un cambiamento per il nome, quello definitivo: Joy Division. Ispirato da un libro che aveva affascinato Ian Curtis. La casa delle bambole dello scrittore polacco Yehiele De-Nur è un racconto basato sulle esperienze vissute da una ragazza ebrea in un campo di concentramento nazista: “Il campo della gioia” era il posto dove le prigioniere erano costrette a concedersi sessualmente ai soldati tedeschi.
Vari riferimenti legati alla Germania dei primi ’40 fecero scrivere alla stampa inglese circa possibili simpatie del gruppo per il nazismo, ma tali voci vennero sempre smentite dalla band. Per fugare ogni dubbio in proposito, i Joy Division vollero partecipare – il 12 ottobre 1978 – al concerto organizzato dai militanti del Rock Against Racism al Kelly’s Club di Manchester.
Il primo controverso disco in studio dei Joy Division/Warsaw fu l’ep AN IDEAL FOR LIVING, quattro canzoni (Warsaw, No love lost, Leaders of man, Failures) cariche di energia punk ed essenziali respiri chitarristici dipinti con grezza vernice dark, registrate nel 1977 ma pubblicato solo nel 1978. Il secondo disco registrato in studio, uscito come doppio extended play intitolato A FACTORY SAMPLE, presentò le direzioni possibili della futura arte-seduzione del gruppo. Voluto da Tony Wilson, presentatore radiofonico e produttore dei Joy Division, il disco ospita anche altri gruppi che ruotavano intorno alla sua etichetta Factory Records. Compaiono in A FACTORY SAMPLE anche i Durutti Column, i Cabaret Voltaire e il cantante John Dowie, tutti artefici di splendide prove ma furono i Joy Division, con Glass e Digital, a catalizzare l’attenzione della critica e ad affascinare il pubblico.
È stato il 1979 l’anno di uscita del primo vero album dei Joy Division. Il titolo era UNKNOWN PLEASURES e portò il gruppo ai vertici delle classifiche indipendenti. I suoni innovativi e deraglianti del nuovo lavoro erano confluiti nella colonna sonora della lunga onda del punk evoluto ed un pubblico intellettuale, variopinto e creativo, rappresentante della nuova cultura metropolitana, aveva messo il loro nome accanto a quelli dei Banshees di Siouxie Sioux, dei Wire e dei germogli metallizzati di band come Pil, Cure e Pop Group. L’album rivelava uno stile ricco di dati modernisti, di sonorità ombrose e cuspidali, di visioni liriche e decadenti sorrette dagli impulsi selvaggi del basso impenetrabile di Peter Hook, dal drumming possente e minimale di Steve Morris, dalla chitarra tagliente, armoniosa, ripetitiva di Bernard Sumner, e declamate dalla voce inflessibile, talvolta cupa, altrove calda e baritonale di Ian Curtis.
La fine del 1979 vide la pubblicazione del 45 giri Transmission/Novelty, due episodi in cui il gruppo conferma il dominio del linguaggio collocato in un decadimento urbano tipico della metropoli imbrigliata tra le maglie dei profondi contrasti sociali. Le affinità musicali con questo mondo vengono sviluppate tra tinte cupe e momenti d’armonia meccanica, attraverso mutamenti dialettici in funzione di un’analisi critica sui mass-media. Transmission fu una sorta di anthem portato in giro per l’Inghilterra alla fine del 1979 in un tour con i Buzzckocs. Fu in quel periodo che per i Joy Division fama e pubblicità diventarono sempre maggiori.
Tra tutto questo per Ian Curtis c’erano: Deborah, sposata quando entrambi erano giovanissimi (19 anni lui, 18 lei); Natalie, una figlia di pochi mesi; Annik, una giornalista belga di cui si era innamorato; e l’epilessia fotosensibile che, spesso, durante i concerti gli provocava delle crisi che ne compromettevano il prosieguo.
Il singolo Love will tear us apart fu registrato nel marzo del 1980, la Factory records organizzò un mini-tour per promuoverlo ma Ian cominciò a palesare seri problemi di salute connessi oltre che all’epilessia, a uno stato depressivo crescente, facilitato certo dallo stress causatogli dal fatto di dover gestire il rapporto con due donne alle quali non voleva dover mentire. Amava certo Annik, ma i sensi di colpa nei confronti di Deborah e la piccola Natalie lo divoravano. Il 45 giri Love will tear us apart/These days uscì nel giugno del 1980, la stampa ne interpretò i versi come se fossero la cronaca di un amore finito male, ovviamente quello tra Ian e Deborah.
Qualche settimana più tardi le crisi di Ian sembravano superate e il gruppo era pronto per volare in America per l’atteso esordio negli Usa ma, imprevedibilmente, il cantante nella triste alba del 18 maggio del 1980 venne trovato impiccato in casa. Un’altra motivazione data sommariamente alla causa della morte è la suggestione provocata dal tragico finale del film La ballata di Stroszek di Werner Herzog visto la sera prima.
Esattamente due mesi dopo, il 18 luglio, viene pubblicato CLOSER, quello che da più parti è considerato il testamento spirituale di Ian Curtis. Intriso di un’aura dark, edificato con contrafforti che poggiano su basi gotiche, è il resoconto dettagliato del pensiero che attanagliava un ventitreenne che sembrava aver già pianificato la propria fine. Nei suoi scritti di adolescente Ian preconizzava di non vivere molto oltre i vent’anni. CLOSER non è il disco qualunque di una band qualunque: la sua grandezza musicale, che pure è indiscutibile, passa in secondo piano di fronte alla bellezza sprigionata dalle parole di Ian. Le scenografie sonore imbastite da Hook, Sumner e Morris conferiscono al disco atmosfere sempre più opprimenti e lugubri, ma sono le liriche e il canto di Curtis a marchiarlo con un pathos che attacca la sfera più emotiva dell’ascoltatore.
Tutti i brani presenti in CLOSER sono degni di menzione: da Atrocity exibition a Isolation a Passover, fino a Colony e A means to an end, grezzi diamanti esistenziali tagliati con le parole di Ian. Ma il punto massimo dell’album, nonché forse dell’intera epopea della musica dark, sta tutto nel trittico Heart and soul – 24 Hours – The Eternal. Il primo, brano ipnotico dal ritmo incalzante, claustrofobico, con la voce e gli echi di chitarra scagliati verso l’alto dal profondo di una caverna, è anche il brano in cui confluiscono tutti i temi già affrontati, le paranoie e le depressioni, in una sorta di resa dei conti. 24 Hours è un’esplosione di ritmi che accelerano e implodono in più tempi, sostenendo il canto sempre più dimesso e rassegnato. Il capolavoro assoluto è The Eternal, una marcia funebre annunciata da rumori indefiniti e accompagnata da un pianoforte che si trascina per tutti i sei minuti della durata del brano. Una delle canzoni più belle e più tristi di tutti gli ’80. La scena è quella di una processione funerea con lo stesso Ian Curtis ad assistere sullo sfondo, gelido e assente, mentre intorno si levano pianto e dolore. Tutto poi approda nella terminale Decades, una danza spettrale in cui il viaggio di Ian si conclude verso la morte, con un messaggio che traspare chiaro: “nessun rimpianto, nessun risentimento… appartengo ad un’altra epoca”.
Non filtra alcun filo di luce a illuminare gli scenari decadenti tracciati lungo tutto il disco, Curtis non lascia scampo a nessuna speranza e a nessun conforto e, in fondo, forse è giusto così. Non si può scegliere di insinuarsi tra le pieghe del diario intimo di uno come lui, uno che ha scelto di morire prematuramente con lucida determinazione senza porsi mille domande con le lacrime agli occhi, nel tentativo di cercare una via d’uscita possibile, quella che Ian ha scelto di non trovare.
Dunque, dalla fine di questo resoconto parte un viaggio attraverso le testimonianze, le poesie e le canzoni nate per ricordare e omaggiare Ian Curtis. Un afflato corale che ho fortemente voluto, coinvolgendo critici musicali, giornalisti, scrittori, poeti e musicisti da un po’ tutta Italia. Ho chiesto loro di cercare tra le pieghe del cuore frammenti di ricordi, emozioni mai sopite, attimi di bellezza di cui serbassero memoria riguardo la musica dei Joy Division e, in particolare, del loro cantante. Il prezioso materiale raccolto è custodito parte in questo libro, parte nel cd allegato. Buona lettura e buon ascolto.