Roberta Giannì
Archeologia e tecnologia non hanno, all’apparenza, nulla in comune. Eppure la prima, la cui attenzione è rivolta all’antico, si serve della seconda, moderna, per innumerevoli scopi.
Da quando l’uomo ha sviluppato e reso sempre più efficienti macchinari e software, le diverse discipline scientifiche hanno intravisto la possibilità di sfruttarne il potenziale tecnologico a favore della ricerca. Nello specifico, in campo archeologico ci si è affidati sempre di più a nuove metodologie di analisi dei contesti e dei singoli elementi al loro interno, permettendo dunque di indagare in maniera più approfondita le caratteristiche legate all’architettura, al territorio, agli uomini e agli oggetti del loro quotidiano. Basti pensare ai droni, che da qualche tempo vengono guidati in ricognizione sui terreni sotto cui si pensa sia nascosta una qualche presenza archeologica; oppure alle mappature digitali, ai georadar utilizzati per individuare la presenza o meno di tunnel e stanze celate; modelli in 3D, non solo di ampie distese di terreno ma anche di veri e propri oggetti o edifici in genere, scansionati e poi riprodotti in modelli virtuali integri, in grado di fornire informazioni circa la loro forma originale; e poi le ricostruzioni, in particolare quelle di volti di esseri umani (e non) vissuti in epoche di poco o anche molto lontane dalle nostre.
La Ricostruzione Facciale Forense (Forensic Facial Reconstruction – in breve FFR) è una ricostruzione plastica dei lineamenti del viso di un individuo a partire dalla forma del suo cranio. I primi approcci alla tecnica ebbero inizio intorno alla fine degli anni Trenta del secolo scorso con il russo Mikhail Mikhaylovich Gerasimov, il quale iniziò ad affinare la tecnica della ricostruzione attraverso una serie di osservazioni dei tratti delle centinaia di vittime provocate dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni, alle sue osservazioni si affiancarono quelle di altri studiosi che portarono ad un metodo standard della pratica di ricostruzione facciale.
Si può dire che il procedimento di ricostruzione dei lineamenti di un individuo sia un insieme di processi scientifici e artistici: si parte dall’analisi dei resti ossei, effettuato da antropologi fisici (specialisti dell’apparato scheletrico umano) i quali ottengono una serie di informazioni riguardanti l’individuo come età, sesso, ascendenza ed eventuali patologie o lesioni in genere; successivamente vi è la creazione di un calco del cranio in resina o in gesso, sul quale vengono sistemati degli indicatori di tessuti molli, che aiutano a ben definire la superficie del volto. In genere si comincia con lo scolpire il naso, utilizzando delle proiezioni geometriche partendo dalle ossa nasali del cranio; poi si ricreano muscolatura e pelle, con aggiunte di materiale plastico. Calibrazione e vestizione sono le fasi finali del processo: con la prima si definiscono in maniera dettagliata i tratti fisici dell’individuo; con la seconda si ottiene la sua capigliatura e il suo vestiario, definito in base al periodo storico in cui l’individuo viene inquadrato.
Alcuni casi di Ricostruzione Facciale Forense
La tecnica della FFR col tempo è andata via via migliorando, grazie anche all’utilizzo di moderni software che hanno permesso di analizzare i resti ossei di partenza nel dettaglio e in minor tempo. I casi esistenti di ricostruzione facciale sono numerosissimi, molti dei quali così dettagliati da permettere, a chi li guarda, di notare quelle che sono le differenze o le somiglianze tra passato e presente. Prendiamo ad esempio Calpeia, la signora del neolitico. Deve il suo nome alla Rocca di Gibilterra, un tempo conosciuta come Mons Calpe, luogo in cui venne ritrovata nel 1996. Nel corso del processo di ricostruzione facciale, durato sei mesi, il suo cranio venne scannerizzato e rimodellato, integrando le parti mancanti. Calpeia aveva probabilmente tra i 30 e i 40 anni, con occhi e capelli neri, e il 90% dei suoi geni la rimandavano ad un gruppo di cacciatori-raccoglitori dell’Anatolia (l’attuale Turchia).
Dalla fine degli anni Ottanta la tecnica della ricostruzione è stata applicata sulle mummie dell’antico Egitto, partendo da una TAC (Tomografia assiale computerizzata), tecnica non invasiva, spesso utilizzata in ambito antropologico, che riproduce immagini tridimensionali dell’anatomia. In particolare un’équipe pisana ha sottoposto a tale processo una testa mummificata conservata presso il Museo Archeologico di Firenze. Per la ricostruzione dei tratti dell’individuo, l’équipe si è servita di una collezione di “modelli di riferimento”, ovvero banche dati in cui sono conservate le caratteristiche di persone differenti per età, sesso ed etnia di appartenenza, con l’idea di trovare qualcuno con caratteristiche simili all’individuo da ricostruire. Il processo di ricostruzione facciale è risultato, per gli studiosi, un passo importante nell’ambito dell’antico Egitto: basti pensare alle differenze che emergono tra gli individui bidimensionali e standardizzati tipici dell’arte egizia e la fisionomia reale, oppure alla possibilità di ricostruire i tratti di mummie regali non ancora identificate.
Un ultimo esempio di ricostruzione facciale è quello di un Australopithecus anamensis di 3,8 milioni di anni fa. I resti del suo cranio furono scoperti nel 2016 in Etiopia. Il progetto di analisi di uno dei nostri antenati più antichi ha visto la collaborazione tra Yohannes Haile-Selassie, curatore del Cleveland Museum of Natural History, da Stephanie Melillo del Max Planck Institut per l’Antropologia Evoluzionistica a Lipsia, e Stefano Benazzi e Antonino Vazzana dell’Università di Bologna, questi ultimi per la ricostruzione della fisionomia. Il cranio rinvenuto in Etiopia è il primo per quella specie: ha dato agli studiosi la possibilità di individuarne i tratti caratteristici in modo da condurre un’analisi di confronto con le altre specie. Inoltre la ricostruzione dei tratti fisici dell’individuo ha annullato la distanza tra l’uomo moderno e i suoi antenati, tratti su cui è finalmente possibile soffermarsi in maniera concreta.
La ricostruzione facciale forense costituisce un ponte tra passato e presente. Dalle semplici osservazioni si è giunti, col tempo e con l’aiuto delle moderne tecnologie, ad una metodologia concreta in grado di riprodurre le fattezze di qualsiasi individuo. La disciplina si presenta ancora giovane e controversa, data la sua componente artistica che implica una soggettività: per questo motivo in alcune parti del mondo è vista come semplice ausiliaria di tecniche scientifiche verificabili. Nonostante ciò, il suo utilizzo è sempre più frequente, numerosissimi sono i casi di fisionomie ricostruite; si spera dunque che col tempo e grazie agli importanti risultati raggiunti, la disciplina possa presto giungere ad un riconoscimento scientifico in piena regola.
Bibliografia:
BETRÒ, M., IMBODEN, S., GORI, R., 2007, Volti per le mummie. La ricostruzione facciale tridimensionale assistita dal calcolatore applicata alle mummie dell’antico Egitto, in Coralini A., Scagliarini Corlàita D. (eds.), Ut natura ars. Virtual Reality e archeologia, pp. 91-96, IMOLA: University Press Bologna
BEZZI L., MORAES C., 2018 (b), Ricostruzione facciale forense: realtà o fantasia?, in L. Bezzi, N. Carrara, M. Nebl (cur.), Imago animi. Volti dal passato, Cles, pp. 12-17.
HAILE-SELASSIE Y., MELILLO SM., VAZZANA A., BENAZZI S., RYAN TM., 2019, A 3.8-million-year-old hominin cranium from Woranso-Mille, Ethiopia, in Nature 573, pp. 214-219.