35 millimetri

I Miserabili: una fotografia della vita in periferia

Alfonso Martino

Amici miei, ricordatevi questo: non vi sono né cattive erbe né uomini cattivi; ma vi sono dei cattivi coltivatori.

Questa frase di Victor Hugo descrive perfettamente lo spaccato sociale che vuole raccontare il regista Ladj Ly nella sua opera prima I Miserabili, pellicola francese del 2019 candidata agli Oscar per il miglior film straniero e che ha vinto il César (l’equivalente del David di Donatello) per il miglior film e il miglior montaggio.

La pellicola si apre con una sequenza positiva, in cui viene mostrata la capitale francese durante la finale degli ultimi campionati del mondo di calcio; non ci sono differenze di sesso, religione o ceto sociale. In quel momento tutta Parigi, tutta la Francia è unita e attende, all’interno di un bar o in piazza, l’esito della finale, che sarà positivo per i Blues e farà esplodere di gioia la folla, ammassata tra il Trocadero e l’Arc de triomphe. Questa allegria viene smorzata da uno sfondo nero, che riporta il titolo della pellicola e introduce il cambio di registro. Ly mostra allo spettatore la vita nella periferia di Montfermeil, comune a pochi chilometri di distanza da Parigi che ha dato i natali a Victor Hugo, attraverso due punti di vista: quello dei residenti – in particolare i bambini, divisi tra attività illecite e sprazzi di normalità – e l’unità speciale di polizia Baque, che lavora a stretto contatto con il quartiere. Vengono mostrati nello specifico due agenti: Chris e Gwada, che introdurranno il nuovo arrivato Stephane nella loro routine. Questo espediente è un rimando al film di Antonie Fuqua Training Day, in cui un poliziotto esperto (Denzel Washington) prende sotto la sua ala un nuovo arrivato (Ethan Hawke).
La regia viene resa adrenalinica per tutti i centotre minuti di girato grazie alle molte sequenze in macchina, con cui i tre poliziotti perlustrano il quartiere, e agli inseguimenti a piedi, ripresi spesso dall’alto e che restituiscono dinamismo costante allo spettatore. Ly mostra il modus operandi della squadra speciale, in cui sono presenti due opposti: da una parte Stephane, poliziotto ligio al dovere e animato da sani principi;  dall’altra Chris, capo della squadra speciale e simboleggiante la parte marcia della divisa, che non si fa scrupoli a scendere a patti con il sindaco – uno delle autorità nel quartiere – e a mostrare le maniere forti con i più deboli, come accade nella sequenza in cui perquisisce alcune ragazze in attesa del bus, agendo al di sopra degli schemi. Tra i due si trova Gwada, il quale appoggia i metodi di Stephane ma che si ritroverà coinvolto in un incidente durante un confronto con dei bambini del quartiere, nel quale rimane ferito uno di loro, Issa. La macchina da presa riprende la tensione degli agenti di fronte all’accaduto, in cui ognuno vuole risolvere la faccenda secondo il proprio codice etico, ma con un obiettivo comune: quello di non far spargere la notizia in tutto il quartiere attraverso la collaborazione dei capi della zona.
Nella sequenza finale si raggiunge il climax della pellicola, con la lunga scena della protesta dei bambini nei confronti dell’unità speciale, rappresentante la volontà di ribellione davanti  agli atteggiamenti violenti delle forze dell’ordine, che non si discostano tanto dai comportamenti dei boss di zona. La regia esalta la velocità dell’azione, che passa dall’ampio respiro della strada del quartiere, fino ad arrivare allo spazio stretto di una rampa delle scale, in cui si ritroveranno un gran numero di personaggi.

Lo scopo di Ly non è quello di dare giudizi, ma di raccontare come si comportano alcuni poliziotti nei confronti di un gruppo di cittadini. Gli eventi narrati possono ricollegarsi a ciò che è accaduto a  Minneapolis, dove George Floyd, un cittadino americano, ha perso la vita per colpa dell’abuso di potere da parte di un poliziotto, scatenando una serie di proteste che stanno mettendo a ferro e fuoco gli USA e che ha fatto scalpore in tutto il mondo.