di Adele Errico
I palmi delle mani aderiscono alla pietra, le braccia spingono mentre una spalla porta soccorso. Il collo si piega e una guancia si appiccica al masso, impastata di terra e sudore. Lo zigomo preme contro la pietra e quasi si spacca sotto il peso dell’odiato macigno. I denti digrignati stridono di sforzo, il piede è curvato come se le gambe dovessero saettare improvvisamente ma è, invece, fermo e assume quella posizione solo per rincalzare la massa e distribuire il peso equamente su tutto il corpo. L’anatomia di Sisifo che spinge il sasso verso la cima del monte è l’immagine di una fatica bestiale che tende al nulla: la pietra il cui peso è avvertito da Sisifo in ogni millimetro della sua carne, il masso che, ruvido, mette in moto ogni muscolo del suo corpo esausto, raggiunge finalmente la vetta, per poi rotolare pigro giù, ai piedi della montagna.
Nel saggio intitolato Il mito di Sisifo, Albert Camus coglie lo sguardo di Sisifo proprio nell’istante in cui la pietra scivola verso il basso: egli è sulla cima, ora da solo, senza la pietra, nemica e compagna, che rotola determinando l’epilogo dello sforzo estremo, “la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità”. Sisifo la osserva vanificare, in pochi istanti, l’immane fatica, già consapevole che sarà suo compito riportarla alla sommità della montagna. La scrittura di Camus immortala l’espressione di Sisifo proprio nel momento in cui si fa mescolanza di sconforto e consapevolezza, sentimenti disegnati nei solchi delle rughe che tanto profonde rimarranno per il resto dell’eternità. Perché è l’eternità che provoca in Sisifo lo stringersi del cuore (se ancora di cuore si può parlare, visto che è di un’anima dannata che si tratta, strappata alla dolce vita mortale); o meglio la consapevolezza dell’eternità: Sisifo sa che non conoscerà la fine di quel tormento e la cognizione del suo destino gli sovviene, sempre, nell’ora del “respiro”, scandita da ogni passo calpestato nel ripercorrere la discesa ripetutamente, una volta dopo l’altra. Riconosce, in questo tempo, la consistenza della sua sciagura, il cui peso è forse maggiore di quello della pietra che si ritrova costretto a spingere. In quel lungo istante di discesa, Sisifo ha il tempo di volgere gli occhi alle stelle, quelle stelle che, mentre svolge la sua occupazione, non può guardare perché i suoi occhi sono ridotti a fessure che trafiggono il terreno e altro non possono scrutare. Accovacciato dietro la pietra, la testa china, Sisifo nella spinta dimentica le stelle perché ogni goccia di concentrazione è volta alla polvere della pietra e la pietra è lui e lui è la pietra. Ma, nel frangente del respiro, la mente si libera e può vagare e Sisifo può tornare a pensare. E a cosa pensa? Pensa alla felicità. Agli attimi fuggevoli e felici della sua vita mortale, così breve, così imprevedibile e, per questo, così spettacolare. Il pensiero si fa ricordo e quanto lo strazia quel ricordo, nettare di una gioia oramai perduta. Il ricordo di quella vita in cui “il più astuto degli uomini”– così di lui si diceva nell’Iliade –, aveva sconfitto la morte per ben due volte e per questo aveva scatenato l’ira degli dei. Confinato negli Inferi dalla stessa morte che aveva incatenato, fugge con l’inganno e, per molti anni ancora, “visse davanti alla curva del golfo, di fronte al mare scintillante e ai sorrisi della terra”, scrive Camus. Ma in vecchiaia, ormai stanco, la morte lo ghermisce e lo trascina definitivamente nelle spelonche infernali, dove trova ad attenderlo il maestoso macigno, sua eterna punizione.
Ma, nell’ora del respiro, Sisifo è più forte della pietra. È più forte del proprio destino di dolore, proprio perché ne è consapevole, sente di poterlo dominare. Non dimentica, come un malato o un folle, la sua occupazione. Non dimentica lo sforzo compiuto e il dolore provato ed è quell’ora di tregua che gli consente di affrontare di nuovo la pietra: Sisifo non può lasciare che la pietra vinca, che vinca l’inanimato, che vinca la pesantezza. Lascia che a trionfare sia il suo essere com’era nella sua esistenza mortale, le sue belle memorie, la passione che aveva per la vita. Non ha certo speranza, laggiù, di cambiare il suo destino. L’unica speranza è quella di imparare a viverlo diversamente. Così Sisifo, tornato ai piedi della montagna, non spinge la pietra ma le resiste. Resiste all’enormità che le appartiene, all’oppressione che provoca, resiste alla pena che la pietra gli infligge, al tormento fisico e spirituale che il masso gli impone. Resiste pensando alla libertà della discesa, alla leggerezza delle sue mani penzolanti lungo i fianchi stanchi, ma che il ritorno alla base rinvigorisce. Resiste immaginandosi le stelle che potrà tornare a osservare e i ricordi che potrà nuovamente sfiorare, rivivendo quella che è stata la sua felicità mortale. Lontano dalla vetta, ritroverà il proprio fardello ma, quando di nuovo poserà le mani sporche di terra sui suoi granelli, avrà una nuova prospettiva in mente: resistere. Ritto ai piedi della montagna, Sisifo ripensa la sua condanna come una missione: la vetta diventa un traguardo, la spinta diventa una lotta. E questo gli basta. “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.