Dimensione suono

Nick Drake – poeta della rarefazione

Francesco Petrella
Matt Elbe
concesso dalla pagina Bad Music Rising

Nick Drake muore il 25 Novembre 1974, nel silenzio. Quale silenzio? Il suo? È certo ch’egli fosse taciturno, e che specificatamente negli ultimi due anni di vita, la sua presenza-assenza afasica avesse di che spartire con la Sfinge egiziana, foss’anche solo per l’enigma che si trascinava a spalla. Pure, non è questo il silenzio in cui è morto. Teniamolo qui, – questo silenzio, attacchiamolo al palo, promettendo di tornarlo a prendere.

1972: Drake disadorno scarno ciabatta in studio, per registrare “Pink Moon”. Eccolo, in solitaria, con solo la chitarra a supporto, a inventarsi un discorso tematicamente elegiaco, intarsiato tra narrazioni armoniche malinconiche, mai lipemaniache. Affatto, l’ultimo disco di Drake è luminoso, ha la leggerezza caustica della rosa strozzata dalla rampicante; respira ampio in un ultimo gorgoglio della speranza, – forse mai abbandonata dal musicista. Gli indizi lasciano supporre che questo disco fosse a un passo dalla necessità mai più urgente di una divagazione; Drake lo registrò in quasi 48 ore, come a sbrigare una commissione, un debito statale, o con la fretta dello scostamento di tenda, per assicurarsi con impellenza di una novità fuori dalla finestra, di un cambiamento nello stato delle cose. È una stupidaggine da sensazionalismo colpevole trovare premonizioni lugubri in “Pink Moon”; mai, nella storia della musica, si era rivelata una tenacia, una perseveranza così vitalistiche. Al massimo, gli si può imputare un tono da preghiera, un gospel scarnificato. Un uomo che si incammini verso il tramonto, dovrebbe essere un cinico impudente per permettersi un blues come quello di “Know”. Testimonianze vicine a Drake, hanno confermato la sua lontananza dalla sfrontatezza e dal cinismo. Non si fraintendano queste righe: ci sono demoni e spettri certi, che si aggirano in “Pink Moon”, ma Drake non è dei loro; egli ingaggia la battaglia, li sta smutandando, ne mostra le vergogne, con l’algido riserbo della sua voce. Voce come fonìa e voce poetica, quella che più si sveste, – impaurita, in pezzi come “Place To Be” e “Parasite”.

“Da che sono il parassita di questa città”, canta nel ritornello. In questa polarità, tra il luogo ideale e il luogo reale, tra il posto in cui essere e il posto in cui si esiste, si rivela una spaccatura orrorifica. È l’abisso, di fronte al quale non può non sopravvenire il terrore. Al fremito sull’abisso, ch’è il mondo nella sua composizione sociale, Drake manca la risposta. Allora, è da tornare a slegare quel silenzio. Non riesce difficile pensare che un’ambivalenza gravi sul silenzio torbido e affastellato. Convivono due tipi: il primo muove dall’esterno all’interno, s’invola, paradosso alato, dal cicaleggiare, dal rumore chiacchierato, fondale bisbigliato delle sue prime esperienze in concerto. Il blaterare del pubblico, durante l’esibizione, divora lo spazio sonoro di Drake, mite alieno; il secondo tipo è iridescente veste del mondo naturale. Panico e panismo. E però, le ambizioni musicali di Drake vogliono incunearsi, forare il primo silenzioso muro. Ma la sua esperienza è informata dal secondo, la sua cultura è umanista e umana. Una dialettica così serrata, tra due lamine riflettentisi l’una nell’altra non può che assumere le forme di una gabbia. Sarà forse questo il motivo di una tale progressiva astrazione, o fuga. La prospettiva poetico-musicale di Drake si innalza, la visione è a volo d’uccello, e più il suo sguardo sale, tanto più il risultato topografico è dettagliato, abissale. C’è un procedimento scalare, dal basso verso l’alto, dalla terra al cielo, dalle “leaves” e dal “fruit tree” esordiali, passando per “At the chime of a city clock”, lo spiccare di “Fly”, fino al parossismo spaziale di “Pink Moon”, di “Things behind the sun”. Innalzamento complessivo ossessivo di una poetica, che più alta va, più disincarna le sembianze dell’aria che attraversa: si fa rarefatta. Questo non apre soltanto a una nuova possibilità d’interpretazione della dimensione lirica drakeiana ma chiude a un’immagine del musicista come ostensore di odi mortuarie. Nel 1970, lo studio di registrazione lo accoglie, – assieme a Cale dei Velvet Underground, per registrare “Bryter Lyter”. Mai ascoltato niente di più romantico, di più puro. Alle spalle c’è già il silenzio di primo tipo, l’impuro escluso, l’apatia viziata della middle-class ingrassata e impoltronata. Dentro, nello spazio di Drake, si creano onde orchestrali inesauribili; la chitarra e il piano di “Pink Moon” invicolati tra bolle di sax e violini, le percussioni intramate su un terreno accidentato. Quello da cui ci si inizia a dipartire. È, probabilmente, il disco più complesso e intricato; la rete musicale è anche rete muscolare, forma della flessione corporea, precedente il volo. La malinconia crepita vivace dell’ingenuità che la infiamma. Nick Drake è nel tempestivo e bisognoso tentativo della speranza, si siede e le dà tono, forse cancellando il tour, il chiacchiericcio, le poltrone di velluto per culi improfumati; a ritrovare il silenzio altro, primario. Questo, che ora possiamo nominare requie, è l’unguento che olia i meccanismi di “Five Leaves Left”.

1969: tempi universitari a Cambridge, Nick Drake e Robert Kirby respirano marijuana e T.S. Eliot. In loro vivono ancora il legno e la rugiada; la pace bucolica riverbera come ecolalia perpetua e i due amici la trattengono in composizioni leggere, tra il giardino perduto e la possibilità dell’urbano; di fronte c’è la città, luminosa e caotica. “Five leaves left” si situa al centro di questi spazi: “Tu scopri che l’oscurità può darti la luce più luminosa”. Tematicamente, ricorrono la battaglia contro il silenzio e l’elevazione, ma anche la luce, il lume, l’impressionistica impalcatura solare/lunare. Drake, sino alla fine, tende a innalzarla, – Prometeo abbandonato e incatenato, malinconicamente rischiaratore. La sua poetica della verticalizzazione e astrazione topografica, della rarefazione sonora è riconosciuta fondante solo dopo decenni dalla sua morte, e allora lui è potuto ridiscendere dalla luna rosa, è venuto alla luce, ancora, nel rifluire del suo lascito musicale. Nick Drake nasce il 19 Giugno 1948, in un’estate assolata.

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