Pierluigi Finolezzi
A differenza del popolo greco, amante della cultura e fortemente legato ad una dimensione della vita ideale, quello romano era molto più pragmatico, desideroso com’era di andare alla ricerca della gloria e della ricchezza. Tuttavia non fu esente dal provare una certa attrazione verso il magico, l’occulto, il trascendente e il metafisico. Tale interesse era stato inculcato nei Romani dall’influenza esercitata su di essi dalle civiltà orientali con cui erano venuti in contatto ora per ragioni socio-culturali ora per questioni di carattere politico-militare, senza ovviamente dimenticare quanto avevano ereditato in ambito religioso dai più vicini Etruschi. Nonostante il loro stile di vita concreto quindi gli Antichi Romani erano un popolo fortemente superstizioso. Se sfogliassimo le pagine delle opere letterarie latine scopriremmo che era considerato di cattivo augurio rovesciare vino, olio o acqua, veder entrare un cane nero in casa o un topo fare un buco in un sacco e tutti, stando a Plinio, dopo aver bevuto l’albume dell’uovo, ne bucavano e poi ne spaccavano il guscio per tenere lontano il malocchio. Dagli scavi archeologici, invece, ci provengono una vasta gamma di amuleti contro le iettature, la sfortuna e le malattie e dei graffiti all’ingresso di edifici che invitavano il fuoco a restare lontano dall’ingresso.
Estremamente superstiziose furono anche personalità di spicco della storia e della politica dell’Antica Roma. Ancora Plinio (Nat. Hist. XXVIII, 16) ci testimonia che Giulio Cesare, dopo che il suo carro si era spezzato durante la celebrazione del trionfo, recitò uno scongiuro per tre volte per garantirsi sicurezza nelle imprese future. Molto interessante è poi il profilo dell’imperatore Augusto tratteggiato da Svetonio nel De Vita Caesarum. L’opera svetoniana, respingendo i canoni storiografici tradizionali, accorda ampio spazio agli aneddoti, alle credenze, alle dicerie e ai prodigi legati alle figure dei primi dodici Cesari. Circoscrivendo la propria ricerca all’ambiente cortigiano e urbano, per Svetonio diventano importanti anche quei particolari che un suo contemporaneo di nome Tacito avrebbe, al contrario, ritenuto irrilevanti. Il gusto per il prodigioso ricopre ampio spazio nelle biografie dell’autore, dove un evento soprannaturale o un sogno premonitore può segnare una tappa decisiva nella vita di un principe. L’Augusto di Svetonio è un uomo estremamente superstizioso (Aug. 90), che temeva il buio tanto da non riuscire ad addormentarsi (78) e che dava estremamente credito agli auspici e ai presagi tanto da considerare di malaugurio infilarsi i calzini al contrario, partire dopo il giorno di mercato o intraprendere affari alla Nona di ogni mese e di buon augurio, invece, vedere la rugiada di primo mattino (92). In Augusto, 91 si legge ancora che “non trascurava né i suoi sogni né quelli degli altri” e non poteva essere diversamente per uno che “sognava moltissimo visioni spaventose, vane e fallaci”, la cui nascita era stata preannunciata da segni divini. Svetonio riporta un passo (94) dei perduti Teologumenoi di Asclepiade di Mende, nei quali si leggeva che una notte la madre di Ottaviano, dopo aver preso parte ad una cerimonia in onore del dio Apollo, si addormentò nella sua lettiga e sognò un serpente che le scivolava lungo il corpo. Svegliatasi di soprassalto si accorse di avere sul ventre una macchia a forma di serpente che non potette mai più cancellare e che la costrinse ad essere bandita sino alla morte dalle terme pubbliche. Dopo nove mesi da questo sogno nacque Augusto che fu ritenuto da moltissimi essere figlio di Apollo, nume tutelare che lo stesso primo imperatore scelse per sé. Ancora, nel giorno in cui venne al mondo, sempre Azia sognò che le sue viscere venivano sollevate sino alle stelle per poi essere distese in tutto il cielo e su tutta la terra, mentre nello stesso istante il marito Gaio Ottavio sognò che dal ventre della moglie era sorto lo splendore del sole. Anche altri contemporanei ebbero negli anni della pubertà del futuro Augusto sogni alquanto particolari. Il console Quinto Catulo vide nel sonno Giove Ottimo Massimo assiso sul trono che recava sulle gambe un fanciullo, identificato il giorno seguente con il nipote di Cesare. Persino Cicerone racconta di aver sognato un bambino alle porte del Campidoglio, al quale Giove consegnò una frusta per fustigare i detrattori della Repubblica. Anche il sommo oratore affermò che l’immagine di quel fanciullo corrispondeva perfettamente al viso del giovane Ottaviano.
Lo svolgersi del cursus di Ottaviano sino alla più alta carica politica è scandito sempre da segni divini che gli preannunciano vittorie, successi, onori, trionfi, acclamazioni. Tutto appare già segnato prima ancora della sua nascita per volere di un Fato che ha scelto un solo uomo per risolvere le controversie causate da cento anni di guerre intestine e di scontri sociali (Suet. Aug., 90 ss.). Certamente, a meno che non si vogliano avvallare e accettare congetture e testimonianze che spesso superano di gran lunga il surreale, la storia raccontata da Svetonio appare non totalmente attendibile in tutte le parti nelle quali è sviluppato lo schema delle sue biografie. Tuttavia la scelta di dare credito e riportare anche notizie di corte e racconti di popolo creano attorno all’opera svetoniana un’aura nuova che sa affascinare il lettore, non annoiandolo con il solo racconto sulla vita di una personalità illustre, ma consentendogli per di più di spaziare all’interno di una versione più romanzata della storia sulla scia, seppur con le dovute differenze, di Cornelio Nepote e di Plutarco.