Camilla Russo
Si è spento il 18 luglio, all’età di 91 anni, Luciano De Crescenzo, figura fondamentale dell’arte partenopea e italiana.
Artista poliedrico: scrittore, regista e attore, raggiunse un successo internazionale pubblicando una cinquantina di libri, vendendo 18 milioni di copie nel mondo e donando un indimenticabile contributo alla cinematografia italiana.
Le sue opere sono state tradotte in 19 lingue e diffuse in 25 paesi, trattando le tematiche più disparate: dalla filosofia ai romanzi.
Il primo, pubblicato nel 1977 “Così parlo bellavista”, rimasto tra i più emblematici e successivamente trasposto anche in film, affida il merito all’autore/ regista di aver raccontato, con temi forti e allo stesso tempo con una dosata leggerezza, la storia di un napoletano e un milanese inizialmente nemici, a causa di pregiudizi razziali e divisioni tra nord e sud, che diventano, contro ogni aspettativa, inseparabili amici e consiglieri.
Un dipinto accurato dell’anima di Napoli di quei giorni, e forse, anche di adesso.
Diventando un mito e simbolo della napoletanità, quintessenza del pensiero partenopeo, ebbe sempre uno sguardo di affetto e indulgenza per la città dov’era nato e cresciuto.
In Così parlò Bellavista, terminò il romanzo scrivendo: «Ciononostante, in questo mondo del progresso, in questo mondo pieno di missili e di bombe atomiche, io penso che Napoli sia ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere. Mi sembrava un buon auspicio, un messaggio di speranza».
Così rimase per sempre la sua visione di Napoli: romantica e poetica.
Ma prima di intraprendere quella carriera artistica ricca di successi e riconoscimenti, l’arte di De Crescenzo nacque con i numeri: si laureò in Ingegneria alla Federico II di Napoli e trascorse svariati anni lavorando all’IBM Italia (‘International Business Machines Corporation), ricoprendo persino il ruolo di dirigente nella sede di Roma.
Una formazione scientifica che si integrò perfettamente con la sua vena di scrittore e filosofo, caratterizzando ancora di più la sua visione del mondo e dell’arte in generale.
“Secondo voi l’arte moderna è arte o è una “strunzata?”
De Crescenzo rispose a questo interrogativo in un scena cinematografica, in “Il mistero di Bellavista“, ponendo l’attenzione non sull’arte, ma sull’uomo.
Come diceva Protagora, essendo l’uomo il centro dell’universo è all’uomo che spetta giudicare, così anche per De Crescenzo l’arte moderna, o l’arte in genere, era arte in base al pensiero del singolo.
Si trattava di una filosofia di pensiero altamente soggettiva che poteva trovarsi in conflitto con l’opinione di molti ma che forniva una chiara “lettura” dell’uomo e del filosofo De Crescenzo: libero nelle sue idee e nel suo agire.
La Filosofia per de Crescenzo divenne fin da subito la chiave di lettura primaria per interpretare la realtà a lui contemporanea e più in generale, la vita.
Sebbene non si definisse mai un filosofo ma un “simpatizzante” della stessa, divulgò tramite numerosi volumi il suo pensiero, discutendo grandi temi esistenziali senza mai esprimere giudizi eccessivamente sentenziosi, ma affidandosi a una elasticità di pensiero rara nel nostro tempo.
Alla domanda su quale fosse il suo libro preferito rispose:
«Non so se mi rappresenta di più però, senza far torto agli altri libri che ho scritto, “Il Dubbio” è il mio preferito. È un libricino nel quale mi pongo quattro grandi domande: Esiste Dio? Esiste il Destino? Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio? Ecco, in nemmeno cento pagine provo a trovare una risposta ai più discussi interrogativi della vita».
Considerava il dubbio come un’ancora di salvezza alla quale l’uomo si aggrappa nel momento in cui si trova a far fronte ad una verità scomoda della vita e che semplicemente non vuole affrontare.
In questo saggio del 1992 scrisse di metafisica e di scienza, influenzato dalle vicende personali che lo portarono a lasciare la sua amata Napoli per a trasferirsi a Milano.
Riflettendo sull’esistenza di Dio, sul destino, sull’infinità dell’universo e del tempo richiamò la teoria della relatività di Einstein attraverso formule e disegni, usando un linguaggio semplice, lineare e condito di ironia.
«Non sono un credente, ma uno sperante» affermava l’autore napoletano, definendosi un «ateo cristiano».
Pur non identificandolo come “un uomo con la barba seduto su un trono”, parlò di Dio rappresentandolo come pura percezione, un’idea di base che accomunava tutte le religioni nel mondo.
Non fu quindi un cattolico o un religioso nel preciso significato del termine, sebbene più di una volta confessò di aver avuto quasi “bisogno” della fede.
Considerato da tutti un visionario, un appassionato, un sincero, egli stesso si definì in più di un’intervista una persona fortunata: poiché era riuscita in tutto quello che voleva e perché non aveva mai disperato.
L’unica sua ossessione: il tempo, di cui parlava in continuazione.
De Crescenzo spiegò che il tempo è semplicemente un’astrazione mentale, non esiste.
Ha senso di esistere solo se lo si riempie di emozioni, in caso contrario, non è altro che il movimento delle lancette di un orologio.
“Il tempo è un’emozione ed è una grandezza bidimensionale, nel senso che puoi viverlo in lunghezza o in larghezza. Se lo vivi in lunghezza, in modo monotono e sempre uguale, dopo 60 avrai 60 anni.
Se invece lo vivi in larghezza, con alti e bassi, innamorandoti e magari facendo pure qualche sciocchezza, magari dopo 60 anni avrai solo 30 anni.
Il problema è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece dovrebbero studiare come allargarla.
Vedi, esiste un tempo esterno e un tempo interno. Il tempo esterno è quello degli orologi, dei calendari, ed è uguale per tutti. Il tempo interno, invece, è un fatto personale nostro, come il colore degli occhi e dei capelli, ed è diverso da persona a persona. Ecco perché ci sono persone che hanno 60, 70 o 80 anni ed hanno l’impressione di averne 20. La verità è che non è un’impressione: ne hanno davvero 20.”
Luciano De Crescenzo fu, come si descriveva lui stesso, uno “scrittore-divulgatore”, un uomo profondo capace di comunicare la sua vasta saggezza con grande semplicità e modestia.
Alla sentenza netta preferì sempre il compromesso della battuta, straordinario per vocazione e fortuna; potente per chiarezza e schiettezza dei suoi racconti.
Quelli su carta, quelli in pellicola e quelli, pure, disegnati.