di Pierluigi Finolezzi
Più di ogni altra opera dell’antichità, le Metamorfosi di Ovidio ci restituiscono l’immagine di un mondo vivo, appassionato e sensibile alla bellezza in tutte le sue forme. L’autore, senza dubbio tra i più amati tra gli scrittori della tradizione greco-romana, ha saputo dare vita ad un capolavoro capace di sfidare il tempo e di racchiudere nei suoi versi i modi di pensare, di sognare e di esprimersi propri non solo del I secolo d.C., ma anche di tutte le epoche avvenire.
Ovidio non ebbe vita facile. A causa dei temi trattati fu a lungo rifiutato dalla Chiesa e riabilitato solo a partire dall’XI secolo. Da allora tutti i grandi della letteratura internazionale si sono confrontati con lui. Dalle prime interpretazioni medievali, passando per Dante che pullula di citazioni e riferimenti al poeta augusteo e per Shakespeare che ne è debitore in tutti suoi drammi, sino a giungere ai più vicini Eliot, Calvino e Dylan, tutti hanno saputo cogliere la vivacità, l’originalità, il dinamismo e la grandiosità dei versi ovidiani, che come aveva già capito lo stesso Ovidio né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo divoratore avrebbero potuto più cancellare (Met. XV, 870-872). Alla luce di quanto evidenziato sinora, non ci deve stupire se agli inizi del IV libro, di cui qui analizzeremo solo centoundici versi, al lettore sembri di ritrovarsi in un contesto molto simile a quello del Decameron boccaccesco. Proprio come nel capolavoro italiano del Trecento, anche agli inizi di questo libro delle Metamorfosi, Ovidio pone sulla scena della narrazione dei personaggi-novellieri che sviluppano delle storie per diletto e per rendere più dolce la fatica del telaio che le tre figlie di Minia Leuconoe, Arcippe e Alcitoe hanno preferito alle celebrazioni dei riti dionisiaci. Ad aprire la serie di racconti è la maggiore delle tre sorelle, Alcitoe, con la tragica storia di Piramo e Tisbe (IV, 55-166).
Nelle Metamorfosi, l’interazione tra l’uomo e la natura è uno dei centri nevralgici attorno a cui ruota l’intera economia dell’opera. A fare da intermediari tra la realtà umana e quella naturale sono molto spesso gli dei, il destino o una qualche entità sovrannaturale che funge da demiurgo. Essi, inserendosi all’improvviso, imprimono un’evoluzione particolare e ricca di sorprese allo svolgimento della narrazione, consentendo inoltre al mito di aprirsi verso nuovi orizzonti. Molte storie del capolavoro ovidiano sono entrate nel nostro comune immaginario anche grazie al contributo dato dall’arte figurativa, altre, invece, sono rimaste ai margini perché hanno per protagonisti personaggi secondari del mito o perché Ovidio ha dedicato ad essi solo pochi versi in confronto a quelli appartenenti alle storie di Dafne, di Proserpina, di Psiche, di Orfeo, di Narciso, di Arianna, di Fetonte o di Pigmalione. A questo secondo gruppo di racconti appartiene la tragica vicenda dei due giovani babilonesi di nome Piramo e Tisbe. In essa, Ovidio mescola sapientemente il suo gusto esotico e orientaleggiante, forse appreso negli ambienti che agli albori del principato si opponevano al regime augusteo, con la sua spiccata propensione a parlare dell’amor in una maniera più tenue e raffinata al limite della licenziosità. La vicenda dei due innamorati è, come spesso capita in Ovidio, impregnata di un pathos che sembra avvicinare la poesia elegiaca ed epica al registro drammatico, tipico della tragedia e, al riguardo, non manca tra gli studiosi chi ipotizza che Piramo e Tisbe siano stati dei modelli, assieme alla ben più nota novella veneta, del Romeo e della Giulietta di Shakespeare. Sono proprio le numerose analogie che intercorrono tra i protagonisti della tragedia del drammaturgo inglese con quelli del racconto ovidiano che hanno consentito ai due giovani babilonesi di essere considerati come i “Romeo e Giulietta dell’antichità”. A Babilonia, come a Verona, l’amore tra due giovani è ostacolato dalle rigide regole imposte dalle famiglie, ma nonostante le proibizioni, il fuoco della passione quanto più era tenuto nascosto tanto più si faceva ardente (vv. 61-62). A separare i due amanti che abitavano due case contigue, vi era una sola parete maledetta (v. 73) che impediva loro di unirsi con tutto il corpo. La scoperta di una crepa consentì per lungo tempo lo scambio di messaggi tra Piramo e Tisbe, ma il desiderio e la passione ben presto resero insufficiente questo scambio di parole scritte sulla carta e fecero piombare i due innamorati in strazianti lamenti e in feroci invettive contro quel dannato muro che separava il loro amore. Fu proprio la convinzione di non poter più resistere a quel fiume impetuoso che spinse i due giovani ad eludere la sorveglianza e a darsi appuntamento fuori dalla città sotto un altissimo gelso dai candidi frutti. Al v. 89, Ovidio non a caso descrive con precisione cinematografica il frutto di quel gelso (arbor ibi niveis uberrima pomis), la cui caratteristica principale era quella di avere un candore simile a quello della neve. In questo modo il poeta ci rivela che quell’albero sino a quel giorno produceva soltanto ed esclusivamente frutti con quella caratteristica, ma ci invita anche a focalizzare la nostra attenzione su questo particolare per comprendere in fondo l’essenza della successiva metamorfosi e per consentire a noi oggi, dopo duemila anni, di ammirare ancora la bellezza dei segreti che la natura custodisce nel profondo di se stessa. Ed è proprio da questo verso che, con l’incalzare degli eventi, ciò che è esclusivo si trasforma in qualcosa di nuovo, dando forma a ciò che si presenta sotto ai nostri occhi allo sbocciare della primavera, non più soltanto come arbor niveis pomis. Infatti, giunta sul luogo dell’incontro, Tisbe s’imbatte in una feroce leonessa con il muso cosparso di sangue e fugge via perdendo il velo con cui aveva nascosto il volto mentre usciva dalla città. L’animale incappato nel velo della giovane, lo lacerò e lo imbrattò di sangue, facendo credere a Piramo, arrivato nel frattempo sul luogo dell’incontro, che la sua Tisbe fosse morta. Una sola notte segnerà la fine di due amanti (vv. 108-109): è così che esordisce nel suo lamento il povero e sfortunato Piramo che dopo aver imbevuto di lacrime il velo della donna decide di trafiggersi con la spada che portava al seguito. Immediatamente le radici del gelso si dissetano del sangue che gronda dalla ferita del giovane e che bagna la terra come la pioggia; subito i frutti cambiano colore, tingendosi di un rosso cupo di morte. Intanto, Tisbe torna sui suoi passi e si dirige verso l’albero. Non appena vide un albero che era diverso dal suo, un sentimento di smarrimento le pervase l’animo e temette di essere finita nelle oscure grinfie del bosco, almeno finché non vide il suo Piramo ai piedi di quel grande gelso, così strano eppure testimone della sua drammatica fine di amata e di amante. Ti seguirò nella morte e si dirà di me che fui la causa e la compagna della tua morte (vv. 151-152), in questo modo reagisce Tisbe alla vista dell’amato. La morte chiama la morte, ma la fanciulla ha ancora la forza di implorare i genitori, artefici dell’infelicità di due giovani innamorati, e l’albero, spettatore impassibile di un amore da consumarsi trasformato in tragedia. Ai primi chiede un sepolcro da condividere con il suo amato per potergli stare vicina per l’eternità, al secondo di continuare a produrre frutti dello stesso colore del sangue, in armonia con il lutto e il sacrificio che si era consumato alle sue radici: Tisbe si trafigge come Giulietta, con la stessa lama appartenuta all’amato, ma la sua preghiera non resta inascoltata presso gli dei, che da esseri non curanti degli uomini, si mostrano in questa circostanza commossi (tetigere deos; v. 164), facendo sì che il frutto del gelso, una volta maturato, conservi un colore rosso scuro come quello del sangue versato dagli innamorati che si erano immolati sotto la sua ombra (nam color in pomo est, ubi permaturuit; v. 165). E fu così che, secondo Ovidio, a partire dall’amore infelice di Piramo e Tisbe, la natura ebbe in dote un gelso dai frutti rossi che ancora oggi, sotto i raggi del sole di maggio, colora le campagne degli uomini, rimanendo testimone non solo della morte di due giovani sfortunati, ma anche della passione che finalmente la coppia di Babilonia potette vivere intensamente e liberamente nel regno di Ade, non più curante delle restrizioni e delle proibizioni di un mondo da sempre restìo ad amare. Rosso divenne il gelso maturo, e di che colore sarebbe potuto esserlo, infatti, se rosso, in fin dei conti, è il colore dell’amore?